In
una tasca della giacca ho con me un coltello. Un temperino, a dire il vero, una
lama di pochi centimetri che si ripiega dentro al manico, però ben affilata, e
con la punta estremamente aguzza. Mi sento sicuro quando con indifferenza
infilo la mano là dentro e lo ritrovo lì, ogni volta che mi va, tutti i giorni
che voglio. Giro per strada, mi fermo alle panchine, magari davanti a qualche
negozio, ed il coltello resta ogni volta al proprio posto, posso sentirlo
sempre con la punta delle dita. Potrei usarlo, se volessi, estrarlo
all’improvviso e spaventare qualcuno; oppure difendermi, mostrare che non sono
un pappamolle qualsiasi che ha paura di mostrare ciò che vale.
Sorrido,
avendo bene in mente tutto questo, specialmente quelle volte che vado fino
all’ufficio postale, per farmi consegnare i soldi della mia pensione di
invalidità. Perché non posso lavorare, ho avuto una brutta malattia, una forte
depressione che mi ha lasciato privo di forze, incapace di intraprendere qualsiasi
cosa. Così mi metto lì, in fila dietro gli altri, meditando qualcosa di
rabbioso che non so proprio dove mi nasca, e non riesco neppure a immaginarmi
su chi alla fine debba scaricarlo.
Oggi poi, mi
fermo davanti a una vetrina, osservo a lungo qualcosa, resto per un po’ a
guardare la mia immagine riflessa, ma ad un certo punto esce il negoziante, e
mi chiede con un brutto modo di fare se c’è qualcosa là dentro che magari possa
interessarmi. Vorrei dirgli di no, che non mi frega niente né di lui né del suo
negozio, ma non gli rispondo nulla, perché mai dovrei rispondergli, penso con
completa convinzione. Vorrei fargli un gesto, ecco, qualcosa come per dire: ho
capito, me ne vado, ma senza volere così facendo tiro fuori improvvisamente il
mio coltello, ed anche se la lama è ancora richiusa nel proprio manico, il
gesto probabilmente appare più che eloquente, tanto che quello rientra in
fretta e furia dentro la sua bottega. Gli vado dietro per cercare di spiegargli
qualcosa, ma quello è già al telefono, sicuramente sta chiamando delle guardie.
Torno subito in strada, mi guardo attorno, estraggo la lama quasi con rabbia e
tenendo il mio coltello ben saldo nella mano proprio davanti a me, scappo via lungo
la strada.
Forse per
colpa dell'abitudine, non so, ma quasi per un automatismo, tutto sudato,
trafelato e ormai col fiato grosso, mi ritrovo ad entrare dentro al solito
ufficio postale dove vado sempre. Registro gli sguardi di tutti su di me, sento
intorno anche degli urli, ed immediatamente le persone presenti che vanno a
sistemarsi tutte da un parte, anche se a me viene quasi da sorridere. Mi
avvicino come ogni volta allo sportello: la mia pensione? faccio all'impiegata
cercando di essere ironico. Quella tira subito fuori tutti i soldi che ha nel
suo cassetto e me li passa, un bel gruzzolo, devo dire, così li prendo, li
caccio in una tasca e con tutta calma esco dall'ufficio.
Sto bene,
nella mia mente non c'è niente adesso, mi sono fatto dare soltanto i soldi per
vivere, penso, in fondo era un po’ doveroso da parte di tutti. Appena ho potuto
il mio coltello l’ho gettato tra i rifiuti, e comunque non credo ci saranno grosse
conseguenze per tutta questa storia. Ma per adesso non credo di tornare a casa
mia, giro per strada quasi senza meta, guardo tutta la gente che va di fretta e
che mi pare adesso sia composta da persone molto più serene di me. Ripenserò
con calma a tutto quanto, mi dico, perché credo di aver smarrito qualcosa che adesso
non saprei neppure definire. Però sono vivo, questo mi pare l'importante.
Bruno Magnolfi
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