Perché
mai devo stare chiuso qua dentro, rimanere dietro ai vetri di questa finestra
ed accontentarmi solamente di osservare una realtà in fondo piccola, quasi
insignificante? Sono già diversi giorni che lui si pone questa domanda, ed
anche se si sente ancora debole per via della convalescenza a seguito di una
lunga malattia, e nonostante il medico gli abbia prescritto di non uscire da
casa e di non fare alcuno sforzo, guarda l’aria aperta lungo la strada di
fronte al suo appartamento provando la sensazione di essere come dentro una
gabbia. Si muove sulla sua sedia, a volte legge qualche pagina di uno dei suoi
libri, ma poi torna lì, a quella finestra, ad osservare semplicemente la gente
che passa, il transito ordinario di uomini e donne lungo la via.
Suona
il telefono, e qualcuno timidamente, presentandosi solamente con il nome di
battesimo, dice che lo conosce già da un po’ di tempo, che lo vede praticamente
ogni giorno dietro a quei vetri, e che prova quasi pena per lui, costretto come
si trova in quella situazione. Lui si scuote, dice che quelle parole sono quasi
offensive: che è stato gravemente ammalato, e che per questo e nient’altro si
trova in quella situazione che normalmente non avrebbe mai accettato; ma
l’altro conserva un tono di appiccicosa comprensione, come se gli argomenti con
cui sta replicando non avessero quasi importanza.
Lui si
innervosisce, alza leggermente la voce, chiede sgarbatamente che cosa desideri
dimostrare con quei discorsi senza alcun significato, e quale sia il motivo
finale di una telefonata del genere; ma l’altro dice soltanto che è un senso di
solidarietà ad averlo spinto fino a quel gesto, e che se è d’accordo potrebbe
addirittura passare a fargli una visita, magari perfino quel medesimo
pomeriggio. Lui resta perplesso, non si aspettava di certo una cosa del genere,
anzi, gli torna proprio strano che possano esserci delle persone preoccupate in
questo modo degli altri, ma dice subito, pur ringraziandolo, che non ne sente
affatto la necessità, e che in fondo a lui non serve niente. L’altro non si
scoraggia, dice che in ogni caso passerà più tardi, giusto per assicurarsi di
persona che le cose stiano effettivamente in quella maniera, e lui non riesce
ad opporre alcuna resistenza, anche se forse vorrebbe togliersi volentieri dai
piedi quello strano scocciatore.
Riagganciano
insieme, e lui prova il moto immediato di uscire da casa, di non farsi trovare,
a dimostrazione di come stia già più che bene, e che non ha affatto bisogno di
niente e di nessuno. Ma poi, soprappensiero, torna ad avvicinarsi alla sua
finestra, anche se adesso prova come una specie di ostilità per i vetri, come
se da quella trasparenza giungesse a lui soltanto la curiosità malata e forse
tossica della gente che continua a transitare da quelle parti.
Si
siede, spossato, attende, infine qualcuno suona effettivamente il campanello di
casa. Gli tremano le mani mentre apre la porta, ma un uomo all’incirca della
sua stessa età, che lui non conosce, gli dice gentilmente: buongiorno, eccomi
qua. Così lo fa accomodare, si siedono, e restano in silenzio per qualche
minuto. Infine quell’uomo dice che adesso deve proprio andarsene, e
all’improvviso lui resta solo, di nuovo, accanto a quella finestra. Avrebbe
potuto dire chissà quante cose, pensa, intavolare innumerevoli scambi di idee e
parlare di mille e più argomenti; ma non l’ha fatto. Forse, riflette, in un
caso del genere è giusto provare almeno un piccolo senso di colpa.
Bruno
Magnolfi
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