lunedì 22 giugno 2015

Senso di colpa.

            
            Perché mai devo stare chiuso qua dentro, rimanere dietro ai vetri di questa finestra ed accontentarmi solamente di osservare una realtà in fondo piccola, quasi insignificante? Sono già diversi giorni che lui si pone questa domanda, ed anche se si sente ancora debole per via della convalescenza a seguito di una lunga malattia, e nonostante il medico gli abbia prescritto di non uscire da casa e di non fare alcuno sforzo, guarda l’aria aperta lungo la strada di fronte al suo appartamento provando la sensazione di essere come dentro una gabbia. Si muove sulla sua sedia, a volte legge qualche pagina di uno dei suoi libri, ma poi torna lì, a quella finestra, ad osservare semplicemente la gente che passa, il transito ordinario di uomini e donne lungo la via.
            Suona il telefono, e qualcuno timidamente, presentandosi solamente con il nome di battesimo, dice che lo conosce già da un po’ di tempo, che lo vede praticamente ogni giorno dietro a quei vetri, e che prova quasi pena per lui, costretto come si trova in quella situazione. Lui si scuote, dice che quelle parole sono quasi offensive: che è stato gravemente ammalato, e che per questo e nient’altro si trova in quella situazione che normalmente non avrebbe mai accettato; ma l’altro conserva un tono di appiccicosa comprensione, come se gli argomenti con cui sta replicando non avessero quasi importanza.
Lui si innervosisce, alza leggermente la voce, chiede sgarbatamente che cosa desideri dimostrare con quei discorsi senza alcun significato, e quale sia il motivo finale di una telefonata del genere; ma l’altro dice soltanto che è un senso di solidarietà ad averlo spinto fino a quel gesto, e che se è d’accordo potrebbe addirittura passare a fargli una visita, magari perfino quel medesimo pomeriggio. Lui resta perplesso, non si aspettava di certo una cosa del genere, anzi, gli torna proprio strano che possano esserci delle persone preoccupate in questo modo degli altri, ma dice subito, pur ringraziandolo, che non ne sente affatto la necessità, e che in fondo a lui non serve niente. L’altro non si scoraggia, dice che in ogni caso passerà più tardi, giusto per assicurarsi di persona che le cose stiano effettivamente in quella maniera, e lui non riesce ad opporre alcuna resistenza, anche se forse vorrebbe togliersi volentieri dai piedi quello strano scocciatore.
            Riagganciano insieme, e lui prova il moto immediato di uscire da casa, di non farsi trovare, a dimostrazione di come stia già più che bene, e che non ha affatto bisogno di niente e di nessuno. Ma poi, soprappensiero, torna ad avvicinarsi alla sua finestra, anche se adesso prova come una specie di ostilità per i vetri, come se da quella trasparenza giungesse a lui soltanto la curiosità malata e forse tossica della gente che continua a transitare da quelle parti.
            Si siede, spossato, attende, infine qualcuno suona effettivamente il campanello di casa. Gli tremano le mani mentre apre la porta, ma un uomo all’incirca della sua stessa età, che lui non conosce, gli dice gentilmente: buongiorno, eccomi qua. Così lo fa accomodare, si siedono, e restano in silenzio per qualche minuto. Infine quell’uomo dice che adesso deve proprio andarsene, e all’improvviso lui resta solo, di nuovo, accanto a quella finestra. Avrebbe potuto dire chissà quante cose, pensa, intavolare innumerevoli scambi di idee e parlare di mille e più argomenti; ma non l’ha fatto. Forse, riflette, in un caso del genere è giusto provare almeno un piccolo senso di colpa. 

            Bruno Magnolfi


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