Oggi sono qui, dice
lui alla platea improvvisamente silenziosa. Il microfono e l’amplificazione
della grande sala producono un fastidiosissimo rumore di fondo, un forte ronzio
che lui immagina di poter coprire soltanto con una serie di applausi scroscianti
da parte della gente intervenuta là dentro. Non vi parlerò delle solite cose,
dice; non vi annoierò neppure cercando di spiegare gli errori degli altri e
della melma in cui stanno annaspando. Poi si prende una pausa, anche perché il
collaboratore che gli ha preparato il discorso si è molto raccomandato di
rispettare quei piccoli asterischi di cui ha disseminato le frasi sopra i suoi
fogli. Comunque, prima di ogni altra cosa, vi ringrazio di essere qui, dice
alla fine. Parte da questo punto già un timido applauso, d'altronde una frase
così stupida mette comunque sempre tutti d’accordo, pensa lui, e fa sentire i
presenti grandi protagonisti, anche soltanto di un generico qualcosa; perciò,
con questa linea di credito aperta, riflette ancora, potrò dire adesso persino
una qualsiasi strampalata sciocchezza, e questa, anche se addirittura poco
compresa, sicuramente sarà ben accolta.
Ma i piccoli
schiocchi di quelle decine di mani lentamente si attenuano, con calma torna il
silenzio, ed il rumore di fondo riprende subito a farsi sentire, così lui si
ritrova di nuovo distratto, disturbato, quasi innervosito, perciò tocca il
microfono, si muove sul palco, scuote i suoi fogli. Ma infine riprende, dopo
essersi lasciato andare ad una pausa forse un po’ troppo lunga. Dobbiamo essere
concreti, spiega. Il momento non ci permette alcun tipo di errore. Per questo
dobbiamo affrontare con forza ogni prossima sfida. E quando sarà il momento,
dice adesso quasi con convinzione, sapremo sicuramente essere uniti. Fioccano
naturalmente gli applausi, ed anche se quelle parole non significano molto,
riescono comunque a prendere ed entusiasmare, quasi come una dichiarazione di
guerra contro qualcosa o qualcuno che sembra non sia più possibile ormai
sopportare.
Alcuni fischiano per
mostrare di esserci, altri ridono mentre continuano comunque a battere le mani.
Sapremo lavorare con coraggio per le cose in cui abbiamo sempre creduto, dice
adesso quasi urlando sopra il rumore, anche se non erano previste queste parole
sui fogli, e non c’era neppure l’asterisco della pausa subito prima. Torna
rapidamente il ronzio, quasi una maledizione che fa senz’altro accorciare
qualsiasi discorso. Lui salta uno o due fogli, poi riprende cercando la calma
da un punto che gli sembra essenziale: dovremo smetterla di mostrarci
arrendevoli; abbiamo coraggio, voglia, entusiasmo; dobbiamo mostrare da ora in
avanti tutto il nostro valore. Ma il tono della sua voce in questa frase appare
poco convinto, troppo pacato e quasi remissivo, non trascina più quegli
applausi che riuscivano a coprire il rumore di fondo.
Nelle prime file
qualcuno sembra voltarsi verso i propri vicini, come a cercare una spiegazione
esauriente di quanto va accadendo sul palco. Lui può ancora riuscire a prendere
tutti in un pugno e lanciarli in una grande esplosione d’entusiasmo, ma il
ronzio ormai lo ha fiaccato, ormai sente soltanto la voglia di andarsene, di
smetterla una volta per tutte con quella farsa insignificante. Non mi sento
bene, dice alla fine dentro al microfono. Tutti lo incoraggiano, anche se pochi
forse credono che questo sia vero. Lui insiste: scusate, ho soltanto bisogno di
bere, di aria, di togliermi dalle orecchie questo ronzio, di starmene un attimo
da solo, di andarmene da questa sala ormai insopportabile. Adesso il silenzio è
fortissimo, onnipresente, eccetto il rumore dell’amplificazione. Lui guarda
tutti, poi alzando semplicemente una mano, li saluta solo una volta, senza trasporto.
Bruno Magnolfi
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