Faccio, come sempre in questi
giorni, dei conteggi ordinari dentro la baracca di cantiere, quando mi accorgo
che fuori ci sono due operai che continuano a litigarsi, anche se dalle parole non
riesco a comprenderne il motivo. Naturalmente non mi muovo dal mio tavolo: in
fondo tutti sanno perfettamente che io sono qui e che posso sentirli, quindi
immagino non sia niente di importante. Quando esco invece, vedo subito che uno
è a terra e sta sanguinando da un braccio, mentre altri due con dei fazzoletti
di carta bagnati stanno cercando di pulire e tamponargli la ferita. Rientro in
baracca, prendo immediatamente la borsa del pronto soccorso e mi dirigo
dall’operaio, visto che sono anche responsabile della sicurezza. Non è niente
di serio, anche se ha perso del sangue, e comunque va capito subito se uno dei
due abbia tirato fuori un coltello o qualcosa di quel genere.
Nessuno parla, così io alzo la
voce per dare tutta l’importanza che meritano questi fatti, però mi viene in
mente un’immagine di bambini ad occhi bassi davanti al loro maestro, e forse in
questo modo non riesco a dare l’enfasi che vorrei alla mia voce ed anche ai
miei gesti. Rissa in cantiere dico: licenziamento su due piedi previsto dal
contratto nazionale di lavoro. Tutti tacciono. L’operaio ferito si rialza, dice
che è caduto sopra ad un martello, e che comunque adesso sta quasi bene, non è
niente, gli basta una garza, magari anche soltanto un cerotto. So perfettamente
che nulla è vero di quanto mi viene raccontato, così guardo tutti in faccia con
grande serietà, come se da un momento all’altro venisse fuori dalla mia
espressione qualcosa di irreparabile per loro.
Rifletto, non conviene a nessuno
che affondi troppo le cose, neppure al cantiere che deve procedere il più
velocemente possibile e senza alcun intoppo. L’operaio ferito però è pallido,
forse qualcosa non va dentro di lui, magari potrebbe svenire da un momento
all’altro. Lo porto con me nella baracca, lo faccio sedere, mentre gli altri
riprendono il lavoro ognuno con le sue mansioni. Non posso lasciar correre, quanto
è accaduto è troppo grave, non posso comportarmi come non fosse successo quasi
niente, qualcosa devo fare, altrimenti perdo l’autorità che devo mantenere, e
devo anche scongiurare il pericolo che i fatti si ripetano, magari in maniera
anche più grave.
Prendo tempo, riabbasso la testa con
serietà in questi miei conteggi, come fossero d’importanza superiore a
qualsiasi altra cosa, e spero proprio che l’operaio ferito, seduto stancamente
in fondo, stia come lentamente riprendendosi. Attendo ancora qualche minuto,
poi mi giro per chiedergli come vadano le cose, però in questo momento sembra
svenuto, forse il caldo, la tensione, la debolezza per aver perso troppo
sangue. Telefono immediatamente ad un pronto soccorso, descrivo il ferito e poi
aspetto. Lui riapre gli occhi, dice che non c’era bisogno di chiamare dei
soccorsi, è pronto a riprendere il suo lavoro adesso, e altre cose di quel
genere.
Esco fuori: gli altri sono tutti
a testa bassa, nessuno parla adesso, così vado dal primo e gli dico in modo
secco che adesso voglio sapere esattamente quello che è successo, ma lui
biascica qualcosa ad occhi bassi che sta a significare che lui non ne sa
proprio un bel niente. Rientro in baracca, minaccio il ferito di farlo tenere
in ospedale per una settimana o anche di più se non mi racconta cosa sia
successo. Lui dice semplicemente che parlava con gli altri a voce alta, si è
indispettito per una sciocchezza e girandosi maldestramente è caduto
inciampando su un utensile. Lascio perdere, alzo il telefono e annullo la
chiamata al pronto soccorso, poi dico all’operaio di riprendere il lavoro. Non
importa, rifletto, posso ignorarli; saranno loro che più tardi uno per volta mi
verranno a dire cosa sia successo, perché non riescono a tenere a lungo
qualcosa solo per se stessi. Li terrò in pugno, basta solo attendere, e allora
a voce alta potrò spiegare a tutti con disprezzo, ed anche con un po’ di
tenerezza malcelata, che siamo tutti soltanto dei bambini.
Bruno Magnolfi
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