Il primo taglietto ad una mano me lo procurai quando
ero ancora un ragazzo, distrattamente, tanti anni fa,
proprio mentre stavo giocando da solo in fondo alla strada di casa, con un
coltellino dal manico di legno che avevo comperato su una bancarella al
mercato. Due gocce di sangue color rosso vivo e poi via, senza altre
conseguenze. In seguito però iniziai spesso a punzecchiarmi la pelle con
qualsiasi cosa tagliente mi trovassi tra le mani. Il gusto perverso del dolore
per me ha sempre avuto un richiamo attraente, tanto da portarmi a procurare dei piccoli tagli su tutto il mio corpo, dove meglio mi
capitava. Oggi poi mi infliggo quasi
regolarmente delle piccole ferite alle mani, alle braccia, certe volte anche
alle gambe, e provo sempre un certo piacere nel provare lo stesso piccolo
sottile dolore, vedere le medesime gocce di sangue, riconoscere che dentro la
mia scorza non c'è mai il vuoto, ma qualcosa che pulsa, qualcosa che al minimo
graffio tracima e si mostra. Per me è come manifestare di me stesso qualcosa che sta dentro e che non so cosa
sia, ma sono sicuro che scalpita per mostrarsi alla vista tramite quelle
fessure che io stesso mi imprimo.
Trovo
che non ci sia niente di male nel comportarsi in questa maniera, e neppure nel
dichiarare ad altri questa cosa per me naturale: in fondo ognuno ha le sue
debolezze, ed anche dei gusti diversi; per me poi è diventato una specie di
gioco quello di scalfirmi la pelle con qualche piccolo taglio, ciò che davvero
pensano gli altri alla fine non mi interessa. Naturalmente anche le lame che
uso devono sempre essere all'altezza della situazione, e soprattutto ben
affilate, ma ho anche delle preferenze in proposito che rispettano giorni,
orari e anche condizioni diverse. Poi però arriva un tizio, mi chiede con
curiosità che cosa siano quei segni che porto, quelle piccole cicatrici inusuali
sulle braccia, e sembra molto interessato alla maniera di procurarmele. Lui
asserisce di essere un fotografo, un appassionato di cose particolari in
relazione al corpo umano: vorrebbe farmi delle istantanee, magari nel suo
studio; sostiene di potermi addirittura pagare se gli lascio effettuare un
servizio completo. Ci scambiamo i numeri e ci diamo comunque un appuntamento.
Quando
ci vediamo lui sembra molto contento di poter catturare con l’obiettivo le mie
piccole cicatrici, in tutte le angolazioni che desidera. Si perde in ogni
piccolo dettaglio, riprende qualsiasi minuta ferita io mostri, e poi mi fa
anche sfoderare un mio fedele coltello, e forse cerca persino trovare un senso
preciso a tutto quello che vede davanti alla macchina. Infine tira fuori dei
soldi, mi dice che ci dobbiamo incontrare di nuovo, che devo firmare delle
carte per concedergli la possibilità di pubblicare il materiale che ha
registrato. Ci accordiamo subito, e poi decidiamo di fare altre foto per una
rivista che ha richiesto un esauriente servizio completo su tutto quanto. Le
cose vanno benissimo, ogni volta lui mi riempie le tasche di quattrini, e
l'unica cosa che mi chiede di fare è quella di tenere sempre fresche le mie
cicatrici, costringendo me stesso a ferirmi ogni volta. Tutta la faccenda va
avanti per diverse settimane, lui è sempre pieno d'entusiasmo, e poi sostiene
che le mie fotografie stiano andando benissimo, piacciono tantissimo ad un
numero crescente di estimatori, così mi riempie ancora di soldi, senza neppure
bisogno che io chieda nulla.
Poi
però qualcosa si rompe. All'improvviso mi sembra sgradevole che ci sia tutto un
gran pubblico a curiosare sui miei comportamenti; mi scopro stufo di procurarmi
quelle ferite perché qualcun altro possa gioirne, mi sembra persino immorale
che ci sia chi manifesti il gusto di apprezzare cose del genere sugli altri;
così smetto. Smetto di farmi i taglietti, di tormentarmi la pelle, di far
scaturire continuamente le gocce del mio sangue. Il fotografo si mostra
disperato, arriva a propormi altri soldi, altri scatti, altre riviste su cui
apparire. Ma per me ormai è finita, le cicatrici si stanno assorbendo, non ho
più intenzione di farmi graffiare ancora dalla mia lama. Mi sento cambiato, non
provo più alcun piacere in quella vecchia abitudine, all’improvviso non voglio
più vedere il mio sangue e sentire il dolore dei tagli; la gente si trovi pure
una cavia diversa da me.
Bruno
Magnolfi
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