Senedin, aveva
detto sottovoce Senedin di là dalla parete di plastica della baracca; ed io,
dopo un po’, avevo tossito leggermente, giusto per fargli rendere conto che non
era da solo, e soprattutto che non era bello parlare tra sé in quella maniera.
Ma lui aveva continuato per qualche altra volta nello stesso modo, come fosse
la cosa più normale del mondo, disinteressandosi di me e della mia tosse,
proseguendo come a chiamare una persona accanto a lui con il suo stesso nome.
Non volevo
pensare tra me qualcosa di sbagliato, così avevo aspettato con pazienza ancora
qualche minuto, quindi avevo detto a voce alta che questo cantiere ci stava
ammazzando: Senedin, avevo detto, dobbiamo cercare di farglielo capire al
caposquadra, non possiamo continuare ancora molto con il caldo di luglio a
lavorare tutti i giorni per dodici ore così come stiamo facendo. Ma lui non
aveva risposto niente, come a dimostrare che non era il caso di stare troppo a
rompere le scatole al caposquadra o al geometra in un momento come quello.
Certe volte
non lo capisco proprio Senedin; ha un orgoglio da vendere, quando gli va, e
poi, senza neanche un motivo preciso, ecco che abbassa la testa come un
qualsiasi operaio appena arrivato, proprio lui, che posti come questo dove
siamo adesso ne ha girati più di tutti.
Nella baracca
non ti puoi muovere di un passo, il pavimento scricchiola in maniera esagerata,
mostrando esattamente, anche a chi non va di guardare, dove sei e cosa stai
facendo. Senedin invece sembra muoversi in silenzio, di là, quasi come un
gatto, ma io so che cosa pensa, cosa immagina dentro di sé: neppure a lui va bene
di lavorare tutte quelle ore anche se le pagano al nero e con i soldi veri,
senza assegno. Non si può ammazzare di lavoro un uomo, gi dico certe volte.
Cosa c’entriamo noi con i problemi dello stato di avanzamento dei lavori, della
contabilità da presentare e tutte le altre storie che ci racconta il
caposquadra? Ma Senedin cerca sempre di capire tutti, perciò non commenta e
abbassa la testa, come facciamo anche noialtri in fondo.
Tutte pecore,
a volte gli dico, ma soltanto per provocarlo un po’, però lui mi guarda ed
annuisce, come a spiegarmi che il primo pecorone sono proprio io, che forse non
capisco, semplicemente non capisco niente di tutta quella faccenda.
Senedin, dico
ancora mentre mi sistemo sdraiato sopra la mia branda di qua dalla parete; ma mi
rendo conto che lui non ha voglia di parlare, forse non è il momento, devo
soltanto avere più pazienza, aspettare che lui dica qualcosa, che è tutto a
posto, per esempio, o che non dobbiamo parlare troppo del cantiere, come a
volte dice. Però dopo un’altra mezz’ora il silenzio regna ancora dentro la
baracca: si sta male senza scambiarsi i pensieri, le opinioni; così dico:
domani i ferraioli finiscono con l’armatura del pilone, dobbiamo iniziare ad
allestire i pannelli delle casseforme, tanto per dire. Lui non risponde niente,
e dopo un attimo ripete ancora: Senedin, come se fosse l’unica cosa rimasta da
dire. Mi alzo, vado di là e vedo che si sta guardando dentro al suo piccolo
specchio per la barba. Che stai facendo, dico, ti sei perso nella tua immagine?
Lui mi guarda, come arrivasse da un altro pianeta, poi risponde: no, cerco solo
di vedere un operaio che deve tirare avanti in questo modo, e che non ha
proprio nessun’altra possibilità.
Bruno Magnolfi
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