martedì 17 luglio 2012

Altrove (ritratto n. 6).


            
            Tutto è contro di me, di questo sono ormai certo. Osservo i gesti, le espressioni, i piccoli accenni di ogni persona che gira tra queste mura, e sono sempre più convinto che sia così, che le mie non siano soltanto stupide fantasie. Per questo da qualche giorno sperimento l’assenza del respiro, e sono già arrivato a stare un tempo piuttosto lungo senza aprire bocca ed inghiottire l’aria, però conto di riuscire a fare ancora dei progressi.
            Se non respiro non sono vivo, e se non sono vivo non sono qui, insieme agli altri. Mi guardo attorno e mi sembra tutto sempre più distante. Gli infermieri del padiglione parlano tra loro, certe volte, ma sempre sottovoce, per non farci capire quali siano i loro argomenti. A me importa poco, so per certo che cospirano, si sono messi in testa di tenerci qua dentro per tutto il tempo che vogliono, senza darci alcuna possibilità di comprendere le cose: ci tengono tranquilli, ci chiedono a volte qualcosa, ma sono tutte quante solamente finzioni.
            Nei miei confronti inscenano abitualmente una farsa; hanno capito che sono un osso duro, che non gliela darò vinta facilmente, così spesso evitano persino di rivolgermi le solite domande. Io sto seduto, il viso appoggiato nelle mani, gli occhi vigili, e intanto mi esercito. Sono attento a tutto ciò che accade, aspetto sempre il momento più opportuno, poi smetto di respirare. Posso cadere in catalessi, questo lo so perfettamente, ma ancora attendo prima di arrivare fino a quel punto, aspetto che sia il momento giusto, che le cose siano arrivate alla maturità.
            Il tempo si dilata, grandi cerchi rossi appaiono intorno a me, le orecchie si chiudono, non lasciano più arrivare alcun rumore, così le urla degli altri rimangono lontane, come non esistessero. Nessuno sospetta niente, sono sicuro, a volte fingo di muovermi con flessuosità per concedere l’impressione a tutti che io sia ancora qui, tra queste mura, anche se in realtà è solo la mia controfigura quella che riescono a vedere: l’immagine di un degente come gli altri che respira, mangia senza sporcarsi, prende tutte le medicine senza alcuna ribellione.
            Invece non ci sono; ormai la maggior parte del tempo la trascorro in assenza di respiro, nessuno lo sa, nessuno se ne accorge, ed io mi lascio accompagnare da questi cerchi rossi, fuori di qui, via da questi giorni inutili e dannosi. Non chiudo mai gli occhi, lascio che mi credano afflitto dai miei pensieri, dalle ordinarie preoccupazioni del malato, di chi perde un po’ per volta ogni speranza. Invece è tutto il contrario, potrei ridere, mostrarmi divertito delle giornate dietro a queste mura, anche se non farò mai un errore del genere: potrebbero nascere sospetti, ed io non ne ho bisogno, non adesso perlomeno.
            Entra luce dalle finestre; io percorro il corridoio, la mia bocca è chiusa, forse barcollo per un po’, e infine cado a terra, me ne rendo conto prima di perdere del tutto i sensi e lasciare che i miei occhi si chiudano per automatismo. Quando li riapro sento di essere contento: non ho ancora ripreso a respirare, tutti si affannano intorno alla mia controfigura; io non ci sono, non sono più qui con loro, il mio esperimento è riuscito perfettamente; così lascerò per un tempo indefinito che si prendano cura come vogliono di questo corpo, e intanto me ne andrò in giro dimenticandomi di questa compagnia, di queste mura: per vedere ancora i cerchi rossi, se voglio, e respirare l’aria vera.

            Bruno Magnolfi

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