Lui
cammina in silenzio. I suoi passi sono cadenzati, monotoni, le sue mani
sprofondate dentro le tasche, il viso protetto dal bavero della giacca. Alcune
persone per strada lo sfiorano camminando in senso contrario, altre lo notano
per la sua aria assorta, i suoi pensieri forse persi dietro qualcosa di
irraggiungibile. Poi entra dentro un portone, sale lentamente due rampe di
scale, suona ad un campanello sul pianerottolo. Qualcuno gli apre
silenziosamente, lo lascia entrare, chiude la porta alle sue spalle.
Sa
di essere atteso, ciò nonostante: sono qui per fare chiarezza, dice a voce
bassa, e anche per prendere qualche decisione; come se alternativamente fosse
lì soltanto per un puro caso. Viene fatto sedere ad un tavolo, da un cassetto
si tira fuori una cartella piena di documenti. Lui se ci pensa forse vorrebbe già
essere lontano da lì, anzi, probabilmente sarebbe contento di non esserci mai
neppure venuto, eppure tutto quanto adesso pare andar bene, gli sembra anche
più facile del previsto, una volta riuscito a superare qualsiasi moto spontaneo
di repulsione, quella sua voglia naturale, dopo tutti quegli anni di guerre, di
tenersi lontano da quella casa e anche da coloro che continuano ad abitarla.
Là
dentro si parla adesso in termini quasi legali, le carte riportano con
chiarezza i confini di alcune proprietà da dividere, le espressioni sono fredde,
niente di tutto questo esprime qualche sentimento, qualche bisogno reale, e le
sensazioni che procurano, almeno a lui, quei nomi così legati a dei cari
ricordi, che pur certamente convivono in mezzo a quei margini segnati sulle
planimetrie e tra le parole degli atti, sono solo un’astrazione da quel
contesto. Si prova sicuramente un certo disagio dietro agli occhiali con cui si
osservano tutte le carte, ma in ogni caso si vuole andare avanti, fino in
fondo, fino a quando tutto sarà debitamente appianato e deciso.
Lui
sa che sua sorella si trattiene nella stanza vicina, forse ascolta ogni parola
restando in silenzio, al riparo di una porta ben chiusa: persino dopo tutti
quegli anni non vuole incontrarlo, non vuole neppure vederlo, lascia che ogni
cosa venga trattata da un legale e da suo marito, quel cognato pacato,
tranquillo, che si è sempre offerto di fare da mediatore tra i loro caratteri a
spigoli, cercando la giusta divisione di quelle proprietà di cui sono eredi, solo
loro due, senza alcun dubbio. Si guardano ancora le carte, lui non dice quasi
niente, lasciando che si formuli un’offerta finale: non si è neppure tolto la
giacca, tanto riesce ad avvertire l’ostilità della casa, però sente con
prepotenza la volontà di tutti di arrivare in fondo a quella faccenda, perché non
è più proprio possibile lasciarla ancora in sospeso.
Si
prendono impegni, si firma qualcosa di importante, tutto quanto adesso, quasi
per magia, sembra più facile di qualsiasi altra cosa; ogni nodo da sciogliere
pare risolversi con poche frasi, con qualche sguardo, come se scorresse su una
strada liscia e senza le curve. Infine tutto appare deciso, lui si alza,
saluta, viene accompagnato alla porta, sta per andarsene, ma c’è sua sorella
che esce improvvisa dal suo rifugio, lo guarda, gli va incontro, si
abbracciano: che inutile cosa, credere di avere sempre ragione, pensa qualcuno.
Bruno
Magnolfi