Oltre
il raggio d’azione di questa lampadina elettrica perennemente accesa ad
illuminare il piano del mio tavolo, c’è soltanto l’oscurità, un buio talmente
denso, compatto ed omogeneo, da potersi paragonare ad un nulla assoluto.
Dispongo in ordine sul tavolo i piccoli oggetti a cui sono maggiormente legato:
un vecchio temperino, due penne di cui una non più funzionante, un tappo di
sughero marchiato a fuoco all’estremità, un mozzicone di matita, e infine un
anello di metallo per trattenere le chiavi. La lampadina mi permette di
osservarli a lungo in ogni particolare, ed io mi lascio andare nello studio di
tutti quei precisi dettagli.
Non
c’è nient’altro che valga la pena di essere ammirato come queste mie piccole
preziosità: sono tutto ciò che mi porto dietro da anni, rimasugli di tempi
diversi da questi, durante i quali forse mi sentivo addirittura migliore, meno
rinchiuso come sono adesso nell’alveo rischiarato da questa semplice lampada. Ma
non mi lamento, so che queste mie piccole cose sono ciò che avevo sempre
desiderato di possedere, i fili robusti che legano il mio presente con il
passato, segni concreti di qualcosa che adesso forse neppure ricordo, ma che
indubbiamente una volta ha avuto una certa fondamentale importanza.
Sul
piano del tavolo, ora, tutto questo produce come una danza silenziosa, fatta di
strani interscambi di un oggetto con l’altro, di allineamenti semplici eppure di
grande interesse, quasi una ricerca continua di una disposizione finale, quella
migliore, la più adatta di tutte. Dal buio si avvicina qualcuno con passi
felpati da pantofole di casa: è una mia vicina parente che abita nelle stanze
di questo appartamento, e viene qui ogni poco a sincerarsi di come io stia, se
abbia bisogno di qualcosa, se perseguo anche oggi i miei scopi di sempre. Mi
tocca una spalla, dice: stiamo guardando la televisione, di là; potresti venire
anche tu, se vuoi. Sposto l’anello per le chiavi sul piano del tavolo, indico
qualcosa che solo a me è evidente, ma lo faccio in silenzio, come se lei
interrompesse qualcosa che porto avanti con grande applicazione. Se ne va,
finalmente, senza aggiungere niente.
Infine
mi alzo, ripongo dentro la scatola di metallo tutti gli oggetti, avendo cura di
metterli in una certa maniera sul fondo, poi affronto la zona buia della
stanza. So che non c’è niente qui, niente che abbia davvero valore, però certe
volte non posso fare a meno di rivolgermi verso quel qualcosa che neppure
conosco, quasi un rincorrere degli elementi distanti da me, fuori dalla portata
dei miei desideri. Avrei bisogno di un nuovo oggetto, penso, ma per quanto mi
sforzi non so cosa possa mai essere, non riesco a mettere a fuoco ciò che mi
manca davvero.
Cammino
fino alla porta, la apro, arrivo di là, dove tutti stanno guardando un
programma alla televisione. Non dico niente, mi fermo, osservo la luce
azzurrina che arriva da quello schermo, poi, accanto ad un soprammobile, osservo
la stanghetta di plastica di un paio di occhiali rotti da tempo. Mi accosto,
senza che nessuno mi veda: lascio scivolare dentro una tasca quel feticcio di
qualcosa che neppure so bene che sia, ma che adesso è importante, serve per
completare la danza sotto alla mia lampadina. Torno nella mia stanza e mi siedo.
Dovrò smettere, penso; prima o poi gli altri me lo diranno in malo modo, con
qualche minaccia e con la voce piuttosto alterata. Ma non importa, fingerò
indifferenza, come ho sempre fatto, in fondo loro fanno solo parte del niente.
Bruno
Magnolfi
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