martedì 10 settembre 2013

Accoglienza.

            
            Mi rannicchio su un comodo sedile imbottito in fondo a questo vagone del treno locale, ci sono pochi passeggeri a quest’ora, e ascolto con attenzione il ritmo delle ruote che scorrono sopra ai binari, lasciando che tutti i miei problemi volino fuori da qui assieme all’aria che accarezza all’esterno le lamiere di metallo, le parti meccaniche, le maniglie delle porte, il vetro dei finestrini. C’è persino qualcosa di familiare in un luogo pubblico come questo, qualcosa che adesso mi pare persino protettivo, anche se capisco perfettamente quanto il mio comportamento si mantenga su un equilibrio un po’ precario, a cavallo tra intimità e incomprensione.
            Non so neppure da cosa stia fuggendo davvero, sono salito qua sopra quasi senza pensare: forse per un momento mi aveva attraversato soltanto la voglia puerile di andarmene dai soliti luoghi di sempre. Via dalla città, ho riflettuto, una corsa serale nella vasta provincia ad affrontare qualcosa di nuovo, di diverso, ecco il ragionamento di base. Adesso aspetto soltanto di avvistare la divisa del controllore, poi credo mi chiuderò a chiave dentro la ritirata qui accanto, e scenderò di gran corsa alla prima fermata del convoglio, quando il personale di servizio apre le porte e va sul marciapiede, perché non ho alcun biglietto, non ho valigia, non ho neppure i documenti personali, sono un niente, penso, forse soltanto un fastidio.
            Avrò freddo più tardi, uscirò da una piccola stazione di paese e affronterò una piazza qualsiasi, con due o tre persone che parlano e un caffè ancora aperto, e camminerò in fretta, allora, come rincorrendo qualcosa che neanche immagino, lasciandomi alle spalle la maggior parte possibile di tutto, senza pormi alcuna domanda. Cadrò per la stanchezza in un angolo, quando la notte si farà sentire di più, e chiuderò gli occhi girando lo sguardo verso l’interno, ma non per cercare in me la chiarezza, ma soltanto per ritrovare me stesso, almeno ancora una volta. Domani, con la luce del giorno, qualcosa probabilmente accadrà, e qualcuno forse si sentirà solidale con me. 
            Per adesso il treno procede, sembra quasi sospeso nell’aria, poi frena apparentemente con delicatezza, e qualcuno si avvicina dalla mia parte, mi osserva senza insistenza, poi dice qualcosa che però non riesco a comprendere. Sono sporco, immagino, ho la faccia scura e la barba di cinque o sei giorni, chiunque guardandomi riesce a capire di quale categoria io sia parte. Poi rifletto più a fondo: no, non lo so quale sia la stazione prossima, anzi non ne ho la minima idea, non so neppure verso dove ci stiamo realmente dirigendo. L’uomo di fronte a me mi regala un’altra semplice occhiata, poi guarda il tabellone in alto che indica tutto il tragitto.
            Torno a rannicchiarmi proprio come prima, ma adesso la mia intimità se n’è andata, così cerco qualcosa dentro una delle tasche di questa giacca bisunta, ma non trovo niente. L’uomo si volta, torna indietro lungo il corridoio colorato, il treno sta per fermarsi, guardo in giro se per caso ci fosse il controllore, ma all’improvviso sento di essere solo, forse come mai mi sono sentito. Siamo fermi, le porte pneumatiche scorrono, scendo sul marciapiede, sotto la pensilina, e dietro di me c’è ancora quell’uomo. Non si preoccupi, mi dice, questa è la stazione di un paese accogliente.


            Bruno Magnolfi 

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