Lei cerca qualcosa
nella zona buia del palco. Lui, al contrario, apprezza la luce calda di un
faretto che gli accarezza leggermente l’espressione. Sono stanca dei nostri
continui contrasti, dice lei ad alta voce, come cercando il consenso plateale
del pubblico silenzioso presente. Ormai il nostro sembra un perenne disaccordo,
qualsiasi sciocchezza è buona per tirare fuori opinioni differenti e
contrastanti. Facciamo regolarmente una medesima e monotona figura meschina
davanti a tutti loro, proprio come se fossimo due persone che non riescono
neppure ad essere una coppia. Silenzio. Ma noi non siamo una coppia, dice lui,
modulando un’espressione quasi seria e preoccupata sul proprio viso. Silenzio.
Lo so, replica lei, ma non c’è affatto bisogno di far sapere a tutti della
nostra distanza. Loro pensano di noi qualcosa che è forse superiore alle loro
stesse normali esistenze, si commuovono persino quando noi ci avviciniamo,
quando lasciamo vedere che c’è ancora del sentimento che ci tiene uniti.
Ma è falso, fa lui, è
soltanto un artificio del copione, lo sanno benissimo in platea. Non è vero,
ribatte lei: loro si immedesimano nelle nostre parti, e come succede a tutti
quanti quando sono nelle loro comode case, sperano sempre che qualcosa prima o
dopo si appiani, insomma che alla fine di ogni tempesta sia finalmente il
sereno a prevalere. Silenzio. Lui continua lentamente a muoversi nel cerchio di
luce, lei si limita ad osservarlo, dalla penombra. E poi il nostro passato ha
un senso, dice; qualcosa che ci ha pur tenuto uniti per tutto questo tempo.
Forse è soltanto l’egoismo di ognuno di noi che adesso ci trascina su altre
strade. Certo, una volta c’erano degli ottimi motivi per starcene vicini, per
dimostrarci quasi continuamente il nostro affetto…
Ecco, senti, qualcuno
applaude piano in fondo alla platea alla parola affetto; sono forse quelli che
hanno seguito la nostra storia fin dall’inizio, che ci hanno sostenuto, che in
qualche modo stanno ancora dalla nostra parte, e non desiderano certo vedere
adesso il nostro sangue, ci vogliono bene, insomma. Silenzio. Va bene, dice lui
quasi con stizza, però possiamo pur continuare ad avere delle opinioni
personali, mi pare, anche se queste paiono proprio non assomigliarsi per
niente. Certo, fa lei, è naturale; basta però non usarle tra di noi come delle
armi, o aggrapparci a queste per mostrare tutta la nostra distanza. Va ancora
bene così, lo accetto, fa lui, anche se una maggiore naturalezza mi pareva non
guastasse...
Qualcuno d’improvviso, tra le poltroncine del
pubblico, inizia a parlare a voce sufficientemente alta da interrompere quasi
il dialogo che si sta svolgendo. Dice che è il risultato quello che alla fine
conta per davvero, non tutti questi artifici. Poi si fa silenzio. Non è affatto
così, rispondono invece quasi contemporaneamente loro due. Anzi, dice lei, noi
non potremo mai essere diversi da come siamo ora, e ciò che si vede è soltanto la
dimostrazione e il risultato di quanto profondo sia il nostro vero sentire, non
un colpo di mestiere. Poi cala di nuovo il silenzio. Forse è solo l’orgoglio a
far parlare loro due in questo modo; forse dovrebbero essere più realisti ed
affrontare con maggiore slancio l'evidenza delle cose.
Qualsiasi parte ci troveremo mai a rappresentare
sopra queste assi, dice lui uscendo leggermente dalla luce, non riusciremo
certo a rifarci una verginità: siamo destinati a stare insieme, questo è certo,
e a mostrare così poco per volta il nostro lento sacrificarci, questa perenne
debolezza umana di non riuscire mai a stare per troppo tempo dalla stessa
parte. Silenzio. Sono d'accordo, fa subito lei, anche se la mia adesso appare
soltanto come una contraddizione.
Bruno Magnolfi
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