lunedì 26 settembre 2016

Ritorno deciso.

            
            Qualche volta nella mia testa scende improvvisamente il silenzio. Non è che lo cerchi, che tenti di isolarmi dagli altri, come in fondo potrebbe anche capitare, per poi starmene soltanto per conto mio. No, non è affatto così, perché anche senza neppure pensarci, mentre certe volte me ne sto semplicemente fermo, immobile ad osservare qualcosa, lungo il corridoio magari, proprio in mezzo a tutti, ecco che d’improvviso, senza che minimamente io lo desideri, di colpo mi ritrovo sprofondato in una specie di vuoto pneumatico, un silenzio assolutamente completo, superiore e diverso a qualsiasi altra sensazione si possa mai immaginare.
            C’è anche da dire che ci sono dei giorni in cui il nostro direttore viene a farci una visita. Entra nel reparto, gira avanti e indietro per i corridoi, poi si affaccia nelle stanze; lui naturalmente è sempre accompagnato dai suoi collaboratori, e così insieme a loro visiona tutto per bene, proprio per avere un ragguaglio completo di come stiano andando avanti le cose qua dentro. E’ tutto comprensibile, svolge soltanto il suo mestiere, niente di meno.
            E stavolta però mi trova qui, immerso nel mio stato, lontano da tutto e da tutti. Si ferma, mi guarda, forse mi chiede anche qualcosa, ma io ormai sono immerso completamente in questa mia condizione così indescrivibile, e quindi lo ignoro, non gli rivolgo neppure uno sguardo. Se chiudo gli occhi poi, sono in una grande grotta da solo, o nell’aperta campagna di una notte stellata, e lui non può fare niente per me, come forse neppure io per le sue preoccupazioni. Ad occhi chiusi è bellissimo, rifletto con profonda indifferenza, ed anche se forse il direttore sta ancora cercando di capire qualcosa di me, del mio comportamento, io sono altrove, in volo, verso chissà quale meta.
            Passano i minuti, qualcuno mi stringe ad un braccio, mi scuotono leggermente, ed a me viene quasi da ridere: non c’è niente da fare, penso, se voglio posso stare così chissà quanto tempo, e disinteressarmi di tutto, come se il distacco effettivo tra me e questo luogo fosse ormai avvenuto da molto, e dei miei desideri non ci fosse più alcuna traccia.
            Torno a riaprire gli occhi, ed anche i rumori assieme alle immagini ritornano, dapprima ovattati, poi sempre più forti, entranti ed anche un po’ fastidiosi. Il direttore credo sia rimasto per tutto il tempo proprio qui, davanti a me, con l’espressione di uno che si preoccupa di qualsiasi piccolezza, a cui stanno a cuore davvero le responsabilità che si prende. Lo guardo adesso, gli faccio cenno di si con la testa, e lui si raddrizza, vuole ancora chiedermi cosa mai sia successo, ma io resto in silenzio, fermo, con la faccia di uno che non potrà mai dirgli niente, perché non c’è proprio niente da dire, nulla di cui preoccuparsi davvero.
            Mi accompagnano nell’ambulatorio al fondo del corridoio, mi fanno sedere, il direttore vuole conoscere tutto di me, capire cosa mai stia succedendomi. Si aprono i faldoni, si leggono gli incartamenti che riguardano la mia situazione, si prendono appunti a margine di tutto ciò che in qualche modo può riguardarmi. Poi mi vengono rivolte delle domande. Sorrido; non è niente, dico pacatamente al direttore. Soltanto ci sono delle volte che non sono qui, che vado via, mi prendo una pausa, come un po' tutti d’altronde. Non c’è niente di male, signor direttore, gli dico: tanto riesco sempre a tornare, proprio qui, in questo posto; prima o dopo.


            Bruno Magnolfi    

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