mercoledì 17 agosto 2022

Discorsi da fare.


            Di quando ero bambino ricordo poco, se non una piccola casa in affitto al piano terra, con un giardinetto sul retro, dove abitavo con i miei genitori. Avevamo una gatta in quel periodo, ed io la osservavo a lungo in certi pomeriggi di sole, seduto su un gradino di pietra in fondo ad un’aiuola, dove in primavera nascevano dei fiorellini spontanei. Non avevo molti amici, forse perché ero un po’ schivo, in ogni caso non ne sentivo un grande bisogno, mi bastavano i pochi compagni di scuola che abitavano nella mia stessa strada, e coi quali mi incontravo a volte nel pomeriggio lungo quei marciapiedi edificati appena due o tre anni più indietro, quando fu deciso probabilmente dalle autorità cittadine di migliorare anche quel nostro quartiere periferico. Giocavamo a pallone, certe volte, proprio in mezzo alla via percorsa raramente da qualche macchina, oppure ci si metteva seduti sulla soglia di qualche porta, e si parlava dei nostri pensieri, delle buffe preoccupazioni, e di quello che avremmo voluto fare negli anni a venire. Ricordo che odiavamo la nostra maestra di scuola elementare, ma adesso non saprei dire per quale motivo. Eravamo diversi tra noi, ma all’epoca non ne avevamo troppa coscienza, e ci sembrava che stessimo tutti dalla stessa parte.

            In seguito ci sparpagliammo, ed ognuno, come in fondo era giusto, prese la propria strada, lasciando calcare le differenze tra di noi che forse c’erano sempre state, ma che magari fino ad allora non avevamo voluto vedere, e che mostrarono subito cosa volesse dire avere alle spalle una famiglia coi soldi oppure una perennemente senza quattrini, com’era purtroppo capitato a me. Proseguimmo a salutarci incontrandoci per la strada, ma non fummo più dei veri amici, anche se pur riflettendoci non riuscivo a spiegarne il fondamentale motivo. Adesso non saprei dire che cosa sia accaduto in seguito a quel paio di coetanei che frequentavo da piccolo, e forse in questo momento, se mi capitasse di incontrarli di nuovo, non saprei neppure riconoscerli. Quindi di fatto non ho adesso delle conoscenze di vecchia data, ma soltanto alcune persone con cui ho intrattenuto qualche rapporto, ma soltanto nel corso degli ultimi anni. A volte penso addirittura che se dovessi improvvisamente avere un grave malore, e magari essere ricoverato in un ospedale per qualche tempo, non saprei neppure a chi farlo presente, esclusa la mia collega di lavoro che incontro ogni giorno all’agenzia immobiliare. Di fatto in questo momento si può quasi dire sia lei la mia vera famiglia, visto che i miei genitori sono morti oramai da molti anni, anche se in fondo non andiamo troppo d’accordo, e ci vediamo soltanto per contratto.

            Poi c’è Luciana, la figlia di Mauro, il proprietario della rosticceria – tavola calda dove mi reco spesso, ma anche se c’è della simpatia indiscussa tra di noi, ancora non abbiamo neppure stabilito di vederci una volta al di fuori del locale di suo padre dove lei presta servizio. Provo però il terrore di rovinare tutto in un attimo, così anche se tengo ben riposto il suo numero di telefono che lei mi ha dettato, continuo a rimandare quella chiamata che devo pur fare, fingendo di essere pieno di impegni e di lavoro, tanto da non riuscire mai a decidermi. Forse dovrei andare alla rosticceria dopo aver bevuto qualche bicchierino di liquore per darmi coraggio, ma anche se questa potrebbe essere una buona soluzione, potrei però correre il rischio di apparire soltanto uno stupido ubriacone senza rispetto. Che io sia una persona solitaria lei ne ha piena certezza, visto che a volte mi fermo a mangiare da solo un piatto alla loro tavola calda, e anche quando mi faccio incartare qualcosa da asporto, è sempre in un’unica porzione, perché non ho nessuno per dividere la cena con me. Luciana mi piace, non ha mai fatto nessuna particolare battuta di spirito su di me oppure sui miei consueti comportamenti. Credo che comprenda benissimo la mia condizione ed il mio stato d’animo, e proprio per questo lascia che io prosegua a frequentare la rosticceria di suo padre come se fossi oramai un caro vecchio amico dell’esercizio in cui lavora.

            Un giorno di questi la inviterò a fare un giro con me sulla mia utilitaria, e fermandomi in qualche posto carino dove si possa bere qualcosa ad un tavolino appartato, le spiegherò esattamente quale sia la mia situazione, forse spingendomi a chiederle di frequentarci almeno una volta o due la settimana, magari per andarcene ad un cinema, o forse soltanto per passeggiare e parlare di noi.

 

            Bruno Magnolfi 

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