I giorni
e le notti sono talmente lunghi in galera che qualsiasi cosa è lecita pur di rompere la monotonia del
tempo che scorre con lentezza estenuante. Iniziai, da solo nella mia cella, col
descrivere i sogni che spesso facevo durante i miei sonni brevi e profondi, ma,
tracciandoli con una matita sopra la carta che mi passavano in carcere, sarà
forse per il mio modo di scrivere, o forse per la scrittura un po’ tremolante,
ma a un certo punto quei fogli con tanto di data che avevo accumulato via via,
mi sembravano un po’ tutti uguali, privi di qualsiasi caratteristica. Allora
continuai coi ricordi. Non era semplice far tornare alla mente le cose passate,
spesso arrivavano senza coerenza, alla rinfusa, ed era difficile organizzarle e
ridare al loro fluire sia il senso, sia il loro valore, così come ancora più
complicato era incastonarle dentro al periodo a cui erano riferite. Iniziai a
mettere giù degli appunti, dividendo ogni cosa per anno e per mese, poi scoprii
che più continuavo a pensare a tutto quello che mi era successo più mi
tornavano a mente particolari che fino ad allora avevo come rimosso, anche se
erano rimasti tutti presenti nel mio cervello, come in attesa che arrivasse un
evento a ridare loro la vita. Inizialmente
il materiale che ritornava alla luce era molto anche se spesso confuso, ma in
seguito, continuando a pensare e soprattutto a rileggere le pagine sopra le
quali andavo a descrivere vicende e pensieri, riuscivo a comprendere meglio i
motivi che avevano portato a quei fatti, il senso che avevano avuto le scelte,
le mie decisioni. Intanto passavano i mesi e il lavoro pareva allargarsi sempre
di più, e adesso iniziavo ad avere un’idea più precisa di tutto quello che era
successo durante tutti quegli anni. Una sera una guardia mi chiese cos’era che
scrivevo con così tanto impegno, e allora gli mostrai i miei appunti. Prese con
sé qualche pagina “per dargli un’occhiata”, mi disse, e quando mi riportò tutto
quanto, qualche giorno più avanti, disse che conosceva qualcuno che poteva
scrivere a macchina tutto il lavoro. Aumentai ancora l’impegno per portare
avanti tutti i ricordi che reclamavano il loro momento di gloria, e dove la
memoria non riusciva a completare i vari periodi di tempo, iniziai ad inserire
qualche aspetto della mia fantasia, evitando elementi estrosi o bizzarri,
cercando sempre di conservare il mio modo di essere, in linea con tutto quello
che mi era realmente successo. Veniva fuori sempre di più una specie di
biografia romanzata della mia vita, e tutto il lavoro era talmente intrigante
che ogni volta ne rileggevo una parte trovavo inevitabilmente qualcosa da
aggiungere. Infine mi parve che tutto il manoscritto fosse completo, da quando
lo avevo iniziato era trascorso ben più di un anno, lo rilessi più volte,
apportai ancora qualche modifica, cercai di correggerlo al meglio delle mie
possibilità, e alla fine detti tutto alla guardia per farlo battere a macchina.
Ero contento di quel lavoro, mi pareva una delle cose migliori che avessi fatto
in tutta la vita, mi sentivo orgoglioso e adesso pensavo addirittura alla
possibilità di poterlo far pubblicare. Fu solo diversi giorni più avanti, non
avendo più visto la guardia a cui avevo consegnato il mio manoscritto, che un
suo collega mi disse che non era più lì, che era stato trasferito in un altro
settore. Piansi, non c’erano regole là dentro, avrei dovuto pensarlo: il mio
lavoro era inevitabilmente perduto, probabilmente sarebbe stato pubblicato
davvero, ma con il nome di un altro, e a me la sola cosa rimasta era il fatto
che avrei potuto riscrivere tutto, riprendere da capo coi ricordi e col resto,
ma alla fine decisi che non c’era più senso, tanto valeva fare il carcerato,
proprio come tutti quegli altri.
Bruno
Magnolfi
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