La
mamma era morta al mattino. O meglio, l’avevo trovata così, quando mi ero
svegliata, già rigida e immobile dentro al suo letto. Non le avevo detto
niente, mi ero limitata ad accarezzarle la faccia, senza aver voglia di
piangere, poi avevo cominciato a vegliarla, per tutto quel giorno, muovendo
avanti e indietro la testa come sempre facevo quando mi sentivo nervosa. Non avevo chiamato
nessuno, e nessuno era venuto a cercarci, per tutto quel giorno e per chissà quanti
altri giorni, pensavo. In genere al mattino lei mi diceva di prendere i soldi
dal suo borsello, scendere giù in quel negozio a comprare del pane, le uova,
insalata, due fettine di carne, ma quel giorno la mamma non aveva detto più
nulla, ed io non ero scesa da casa, ero rimasta lì, assieme a lei, tanto non
avevamo bisogno di niente. Era già sera, vedevo il buio in mezzo alle stecche
delle persiane, le finestre per tutto quel giorno erano rimaste sprangate, come
se il giorno non fosse ancora arrivato; ed io non sentivo la fame; non sentivo
i rumori, non sentivo il silenzio, non sentivo più niente, non avevo voglia di
niente, mi sentivo senza più alcuna possibilità di sentire le cose. La mamma
era lì, con i suoi occhi chiusi, e l’unica cosa che io continuavo a volere era
rimanere con lei, lì vicino, sentire la sua presenza accanto alla mia, pur
senza guardarla, perché il suo pallore mi faceva paura. Solo di stare lì avevo
voglia, sopra la sedia, a muovere leggermente la testa, la mia testa vuota,
senza più alcun pensiero. Poi avevo iniziato a cantare una nenia, una nenia che
conoscevo quando ero piccola, tanti, tanti anni fa. L’avevo ripetuta più di una
volta, mentre cercavo di ricordarne le poche parole, poi non avevo più smesso,
pur continuando a ripeterne solo una strofa, l’unica che ero riuscita a
ritrovare dentro alla testa. Avevo voglia stringermi i ginocchi al mio corpo,
di farmi più piccola, di rannicchiarmi, pur con quei miei capelli ormai tutti
bianchi che mi erano nati da chissà quanto tempo, a sostituire quei riccioli
biondi delle fotografie che spesso mi faceva vedere la mamma. E mi sembrava di
essere tornata a quel tempo, quando la mamma cercava di insegnarmi le cose, e
mi portava sempre dai medici e mi diceva che erano amici, che facevano tutto
solo per me, e loro coi camici bianchi e lo sguardo fissato sorridevano e mi
chiedevano quello e quell’altro, ed io però mi sentivo nervosa e mi rinchiudevo
sempre di più. Il sonno poi, era calato improvviso, e a me dispiaceva di non
aver pianto per niente, ma non ne trovavo neppure ragione: la mamma era lì,
dentro al suo letto, io mi sarei sdraiata con lei, non l’avrei mai abbandonata.
Il giorno dopo tutto era uguale, ma io avevo cominciato a tremare, forse avevo
la febbre, e mi ero sporcata, la mamma mi avrebbe sgridato, pensavo, ma
stavolta era successo senza che neanche me ne accorgessi, e adesso l’odore era
forte ed io sentivo vergogna, ma non potevo far niente, pensavo, e dovevo
restarmene lì, assieme a lei, e aspettare quando la mamma diceva di scendere
per prendere il pane e altre cose, e forse avrei voluto tornare ad un tempo
diverso, quando tutto era bello, e le cose erano ancora tutte da fare, da
scegliere; forse da vivere.
Bruno
Magnolfi
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