Aveva
camminato a passi svelti verso la fermata dell’autobus distante appena poche
centinaia di metri da casa sua, ma avvicinandosi a quel tratto di strada aveva
leggermente rallentato l’andatura, come se volesse far trascorrere qualche
altro momento prima di salire su quel mezzo pubblico. In fondo era presto,
c’erano ancora più di due ore prima dell’inizio della sua prima lezione come
insegnante di scienze. Era una supplenza di soli quindici giorni, quella per
cui era stata chiamata, ma lei, laureata nemmeno da un anno, si sentiva già
persa, le sembrava di non essere assolutamente all’altezza per affrontare gli
alunni di quel benedetto liceo, era sicura, una volta che fosse entrata dentro
a quell’aula, di non ricordarsi più niente. L’autobus era il solito, quello che
aveva sempre preso per andarsene alle lezioni dell’università durante tutti
quegli anni volati in un attimo, ma adesso le pareva che tutti là sopra
guardassero lei, che le strutture di metallo per reggersi fossero come
surriscaldate, che quel tratto di strada non finisse in nessuna maniera e
contemporaneamente fosse persino troppo breve. Non si sentiva esattamente come
quando aveva dovuto sostenere i suoi esami alla facoltà di biologia, era
diverso, era come se una parte cospicua del problema non dipendesse da lei,
dalla sua preparazione; come se delle incognite di genere vario fossero di
fronte alla sua cultura scolastica a tenderle tranelli in cui inevitabilmente,
già lo sapeva, sarebbe caduta come una sciocca. Pensava ai suoi anni di scuola,
quando era lei a studiare al liceo, e a quegli insegnanti supplenti che erano
passati, in ogni genere e grado, dalla sua classe. Figure anonime, alle quali
non si era dato alcun credito, che probabilmente, come lei adesso, avrebbero
voluto intavolare lezioni ben fatte, professionali, all’altezza dei tanti anni
di studio alle spalle, ma non avevano avuto alcuna possibilità, erano state
osteggiate, denigrate, sminuite, proprio come sospettava sarebbe accaduto anche
a lei. Aveva paura di quei ragazzi che tra poco avrebbe avuto di fronte,
inutile nasconderlo, proprio quegli stessi dei quali aveva fatto parte anche
lei: le sembrava impossibile adesso, che anche lei fosse stata crudele, miope,
stupida, senza minimamente rendersi conto che tra le cose possibili ci sarebbe
stato anche quel rovesciarsi di parti tra l’aguzzino e la vittima. Avrebbero
riso della sua timidezza, si sarebbero fatti beffe di lei, della sua goffaggine
innata, di quei suoi modi poco pregnanti, di tutti i suoi anni di studio che
all’improvviso erano lì e non servivano a niente, se non a farle fare quella
figura da stupida, di una che non riusciva neppure a far fronte ad un branco di
adolescenti che avevano tutto da apprendere, da ascoltare, conoscere, invece di
gettare discredito su ogni cosa passasse da lì. Infine anche l’autobus era
arrivato davanti alla scuola, lei ne era scesa, era entrata dentro al grande
portone di legno del liceo “Galilei”, aveva scambiato qualche veloce parola con
la segretaria, era passata in aula insegnanti, aveva preso il registro,
inforcato gli occhiali, salutato un custode, entrata senza respiro dentro alla
classe che grondava del sangue di tutti i supplenti che erano passati da lì
prima di lei; e all’improvviso: silenzio; i ragazzi erano in piedi, la
salutavano, la loro supplente di scienze era là dentro la benvenuta.
Bruno
Magnolfi
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