Ero entrato nella casa
della mia famiglia quasi trafelato, arrivando in ritardo rispetto all’orario
che avevamo pattuito, essendomi attardando al solito bar con i miei amici,
quasi con indifferenza rispetto al fatto che tutti quanti ormai mi stessero
aspettando e che presumibilmente si fossero già sistemati al piano superiore,
seduti e immobili intorno al grande tavolo lucido della nostra grande sala da
pranzo. Avevo deciso di sposarmi, si proprio così, e una volta che avevo
iniziato a dirlo in giro alle persone che mi conoscevano, mi era sembrata
sempre di più la cosa migliore da fare in quel periodo, anche se tutti i miei
parenti erano stati chiamati a raccolta dai miei genitori per cercare di parlarmi
e di convincermi in qualche maniera a rinunciare a quel passo, perché quella
ragazza che avevo scelto era giudicata poco bene in tutto il nostro paese, e la
sua famiglia era composta secondo tutti soltanto da persone disgraziate.
Non ci potevo fare
niente se loro volevano pensare quelle stupidaggini, forse ero anche stufo
delle raccomandazioni continue dei miei genitori e di tutte quelle occhiate di
rimprovero, perché tanto avevo sempre fatto come mi era parso, ed adesso sarei
andato fino in fondo di quanto avevo detto, proprio per dimostrare che sapevo
tener testa a tutti quanti. Però, già nel girare la chiave nel portone, mi era
presa un’uggia, un desiderio profondo di andarmene da un’altra parte, di
evitare quell’incontro: avevo parcheggiato la mia moto in una strada laterale,
tornando a casa, proprio per scongiurare che qualcuno mi notasse mentre
rientravo, e già scostando il portone senza far rumore, pensavo tra me che
forse ero ancora in tempo per andarmene e inventarmi in seguito una scusa,
qualcosa di plausibile.
Era vero che non avevo
trovato ancora un lavoro che mi andasse bene, dopo che, visti i risultati, mi
ero definitivamente ritirato dal liceo, ma questo non voleva dire niente: mi
sarei sistemato in qualche modo, ne ero sicuro, e poi c’era mio padre che di
soldi ne aveva anche per me, ed io, suo unico figlio, avevo sempre saputo di
poter contare in qualsiasi caso su di lui. La mia ragazza sarebbe venuta ad
abitare insieme a noi, la mia stanza era grande, ci potevamo sistemare bene, non
c’era proprio niente di strano. Però quei parenti, tutti quei miei zii, un po’
mi incutevano paura: alzavano la voce, a volte, li conoscevo, dicevano le cose sempre
dirette, guardandoti negli occhi, senza starci mai a girare intorno alle cose,
per questo continuavo a muovermi silenziosamente nell’ingresso senza decidermi
a salire.
Certo, non potevo
andarmene, questo era assodato: però dovevo inventarmi qualche cosa per cercare
almeno di variare gli argomenti da affrontare. Mi sentivo nervoso adesso, avrei
fatto di tutto per non dover salire quelle scale, per non dovermi presentare sulla
porta di quella sala odiosa e dover magari sorridere a tutta quella gente
seria, compita e giudicante. Pensavo alla mia ragazza e in quel momento avrei
voluto essere con lei a svagarmi, a spassarmela senza tante preoccupazioni, ma
era impossibile, quello era un passo a cui dovevo dare un seguito, non potevo proprio
fare in altro modo.
Mi ero accostato al
grande armadio in legno scuro e pesante da sempre su un lato dell’ingresso
mentre pensavo, e mi era quasi venuta voglia di nascondermi là dentro, giusto
per dare un aspetto scherzoso alla faccenda. E invece, quasi rispondendo ad un
automatismo, avevo infilato una mano tra il muro e il mobile, quasi per provare
il legno, e facendo forza mi ero accorto che l’armadio si muoveva leggermente,
pur pesante e grande com’era. Allora mi ero impegnato con tutt’e due le mani,
appoggiando anche un ginocchio al muro per dare maggior spinta, e tirandone la
parte alta con tutta la mia forza quell’armadio si era andato sempre più ad
inclinare sul avanti, finendo per cadere rovesciato in un sol colpo,
fracassandosi e provocando un gran rumore di legno che si scollava e si
spezzava. Ante che si staccavano dai cardini, cassetti interni e scaffali che
si rompevano, questo accadeva in un attimo all’armadio, mettendosi alla fine quasi
di traverso sul pavimento dell’ingresso. Tutti in quell’attimo corsero da
sopra, fermandosi dall’altra parte dei rottami di legno, e mi trovarono
meravigliato quasi quanto loro: sentivo dentro di me che forse avrei potuto addirittura
piangere, lì davanti a tutti, ma neanche pensandoci con calma riuscii a trovare
un buon motivo per farlo veramente.
Bruno Magnolfi
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