mercoledì 1 giugno 2011

Il paradiso terribile.

            Osservando in un angolo di quel grande giardino, la parte forse un po’ più in ombra ma maggiormente ricca di cespugli e di vegetazione, affacciandosi semplicemente ad una finestra sul retro del nostro palazzo, in certi casi solo scansando la tendina e guardando fuori dai vetri, era facile riuscire a scorgerla lì, seduta, ferma, lo sguardo basso, le mani sul grembo, quasi una statua, o una pianta tra le altre oppure un albero, praticamente una figura che si immaginava fosse indifferente a tutto il resto. Ci si poteva anche incuriosire, rimanere più a lungo a scrutarne l’espressione identica, l’abbigliamento sempre un po’ castigato e stravagante, ma non si riusciva mai ad ottenere quel qualcosa di più che pareva sempre impellente, come sull’orlo di arrivare da un momento a quell’altro da lei, da quel suo sguardo immobile.
            Certe volte poi, una folata di vento, come un estraneo che entri dall’alto, sorvolando d’un balzo le alte mura su tutti e tre i lati di quel grande giardino a pianta quadrata, arrivava a scompigliarle quei lunghi capelli spesso malamente legati in una coda, lasciandole cadere una ciocca sul viso, o andandole addirittura sugli occhi. E lei in quei casi, con un medesimo gesto sempre identico, quasi usuale, la si poteva osservare intenta a riassettarsi lentamente proprio quel ciuffo, accarezzandosi la parte posteriore di un orecchio, per poi subito far ritornare la sua mano nella posizione di sempre, come non potesse essere ammesso qualcosa di differente, un umore diverso, una voglia di osservare la realtà in un altro modo.
            La chiamavamo Annetta noi del condominio, forse solo perché ci appariva minuta, invidiando quell’appartamento al piano terra sul cui retro si apriva quel grande giardino, usato solo da lei, anche se piuttosto assiduamente. Però Annetta aveva nella sua figura un magnetismo indubbio che era difficile da spiegare, e spesso qualcuno di noi dava un’occhiata là, fuori dalla finestra, soltanto per vedere se c’era, subito rassicurandoci con la sua immagine, come se soltanto a vederla tutto apparisse all’improvviso al suo posto, completo di ogni dettaglio. Nessuno l’aveva mai vista o sentita parlare, e non era possibile incontrarla nell’andito del nostro palazzo o comunque fuori da lì, pareva fosse malata, una persona estranea al mondo, una creatura costretta ad una vita lontana da tutto, ormai piegata alla sua malasorte.
            Difficile anche sentirne parlare, tutti sapevano che c’era, che era là, seduta su quella panchina in angolo, ma i sentimenti che risvegliava in tutti coloro che volentieri la osservavano, erano difficilmente condivisibili, e poi c’era ben poco da dire di una persona così. Qualche volta ai piedi del nostro palazzo si vedeva uscire la mamma, una persona già anziana, che non aveva neppure bisogno di dirle qualcosa: Annetta al solo notarla si alzava, andava verso di lei, rientrava in casa come rispondendo in maniera corretta ad un richiamo preciso, ad un’indicazione importante.
            Forse, senza dircelo, ci tenevamo davvero a quella ragazza sfortunata, la cui vita in fondo si svolgeva lì, in quel piccolo terribile paradiso, e forse in noi, ragazzi curiosi pieni di illusioni e di futuro, ci infondeva senza saperlo quel tanto di umanità che non avremmo mai saputo dove altro prendere. Se ne andò, Annetta, in un giorno qualsiasi, ma per noi tutti rimase ancora lì, al suo posto, ancora per molti, molti anni.


            Bruno Magnolfi

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