Non
credo provi dolore quando cerca di muoversi e di camminare, è possibile che
soltanto l’impedimento alla gamba paralizzata lo porti ad assumere quella
posizione piegata su un fianco, che probabilmente con l’andare degli anni gli
ha procurato altri problemi gravi alla schiena, alle spalle, forse anche a
qualche organo interno. Eppure non si lamenta, anzi spesso sorride, cerca come
di sopperire alla vista del suo corpo sgraziato con certe espressioni dolci del
viso, insieme ad un modo in fondo molto tranquillo e disteso di fare e di dire
le cose.
Entra
nel locale con calma, saluta cortesemente, e infine si siede, sicuramente con
un certo sollievo, e poi resta lì, fermo e in silenzio, con uno sguardo che
qualche volta sembra incapace persino di vedere le cose più semplici,
concentrato in chissà quali pensieri, forse in riflessioni lontane, quasi
irraggiungibili. Sceglie sempre, in quel nostro caffè dalle larghe vetrine, dove
lavoro tutto il giorno come cameriere, un piccolo tavolino in un angolo, dove
non può dare fastidio a nessuno, ma da dove, contemporaneamente, riesce quasi
ad affacciarsi sul mondo, cioè sulla strada e sul largo marciapiede lì accanto,
giusto per osservare con attenzione tutte le persone che si trovano a transitare,
per caso o per abitudine, di là da quei vetri.
Osserva,
stringe gli occhi, muove lentamente la testa, mentre conserva quella sua
posizione incredibile, tutto piegato su un fianco, poi sorseggia con calma il
suo tè, e resta dentro al locale per un’ora, certe volte anche due, quasi ogni
pomeriggio. In qualche occasione, quando ci sono pochi clienti, lo osservo da
dietro al bancone, magari mentre asciugo qualche tazzina o sistemo i bicchieri
da aperitivo: non gli dico mai niente più di quanto sia necessario, eppure sono
contento quando lui è seduto al suo tavolino; è come se, con il suo sguardo
particolare, guardasse le cose e le persone anche per me, che probabilmente non
so neppure guardarle, almeno in quella maniera come riesce a vederle lui, io
che sto lavorando, sono impegnato a seguire i clienti, non posso certo avere la
sua sensibilità e neppure il suo tempo.
Non
so neanche come si chiami, però ogni volta che arriva lo servo per primo, senza
mai farlo aspettare, come per una sorta di rispetto profondo, e lo chiamo
signore, semplicemente, come d’altronde si conviene verso un cliente. Certe
volte lo guardo e mi sembra di averlo visto da sempre, lui mi saluta, paga la
sua consumazione, poi se ne va, lentamente, con il suo bastone speciale, con
quell’incedere strascicato che certe volte deve risultargli insopportabile,
odioso, e allora io esco da dietro al bancone, lo supero, e poi con un gesto
elegante gli apro lo porta.
Lui
abita poco distante, lo vedo quando apre il portone del caseggiato un po’
anonimo che fronteggia il lato opposto di questa strada, il suo appartamento è
al piano terra, non potrebbe affrontare le scale, e certe volte lo noto quando
dietro le tende accende il lampadario durante la sera, e rimane dietro a quella
finestra, giusto per dare timidamente un’altra sbirciata lungo la via. Non so
per quale motivo, ma per me è diventato quasi un punto di riferimento, ammiro
il coraggio con cui affronta la vita, senza darsi per vinto, senza lamentarsi
di niente, ci sono certe volte che vorrei assomigliargli, poi mi viene da
sorridere quando ci penso, e un filo di tristezza mi prende, ma non so neanche bene
perché: sistemo i bicchieri e le tazzine, allora, e lascio correre via i miei
pensieri, gli altri clienti non si accorgono neanche di lui, e allora allontano
ogni indugio, e infine mi chiedo: perché mai proprio io dovrei essere diverso
da loro?
Bruno
Magnolfi
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