Quasi
fuori di me, avevo urlato tutta la rabbia che potevo dopo aver saputo che la
mia legittima richiesta di risarcimento era stata definitivamente archiviata.
Avrei camminato zoppicando vistosamente per il resto dei miei giorni, e non
potevo neanche sperare nella soddisfazione di vedermi riconoscere il danno da
parte di chi me lo aveva procurato.
Forse
non ha alcuna importanza, pensavo già dopo qualche giorno, e intanto mi
trascinavo dietro quella mia gamba offesa, abituandomi sempre di più a quel
modo vistoso di muovermi. Poi mi mettevo seduto, nei pomeriggi svogliati e
privi di cose da fare, in un caffè vicino casa, un locale senza pretese, dove
rimanevo lì da solo a sorseggiare qualche birra e a masticare tra me un odio
generico e insignificante per tutti quanti.
La
ragazza del bar a volte scherzava, riusciva spesso a trovare il senso
divertente di ogni cosa, forse anche della mia gamba. Tirava sempre fuori una
parolina maliziosa senza essere pesante, ed il suo modo particolare di
osservare la realtà ne faceva una persona speciale, una figura a cui ci si
affezionava facilmente. Io osservavo la gente, lasciavo che tutti scivolassero
intorno senza preoccuparmi di niente e di nessuno. Poi pagavo la consumazione,
salutavo la ragazza e me ne andavo per i fatti miei.
Una sera a
casa mi avevano chiamato al telefono: diceva il chirurgo dell’ospedale, lo
stesso che nei mesi precedenti era già intervenuto su di me, che avrei avuto
bisogno di subire una nuova operazione alla mia gamba, le analisi e il quadro clinico secondo lui lo
dimostravano. Così mi ritrovai ancora più giù di morale, fino ad evitare per un
bel po’ di tempo perfino di uscire da casa, salvo per le cose essenziali, e
soprattutto smettendo di frequentare anche quel bar poco lontano. Quando tornai
ad affacciarmi là dentro, due o tre mesi più tardi, camminavo già usando la
stampella, mi muovevo più lentamente e con maggiore fatica di prima, e ormai sembrava
non potessi più fare meglio di così.
La ragazza mi aveva
salutato come sempre e non aveva aggiunto niente, semplicemente e con cortesia mi
aveva aiutato a sedere ad un tavolo libero e a sistemare tutte le mie cose, poi
mi aveva sorriso: ha un’aria migliore, aveva detto; sembra quasi che lei non ce
l’abbia più con tutto il mondo come qualche tempo fa. Sorrisi anch’io, mi feci
portare una birra, rimasi lì seduto almeno un’ora senza dire niente. Quando me
ne andai lei mi accompagnò fino alla porta. Tutti abbiamo dei difetti, disse,
fa parte della natura umana: chi non ne ha si deve preoccupare. Io la guardavo,
per un attimo forse mi commuoveva quel suo essere così piena di vita, soprattutto
paragonato al tentativo di infondermi coraggio, ma poi, da vicino in quel modo,
vidi per la prima volta che sotto al colletto rialzato della sua camicia bianca,
nascondeva un grosso neo bitorzoluto; mi venne da sorridere. Grazie, dissi, e
con calma, con un’andatura dignitosamente zoppicante, presi la strada verso
casa.
Bruno Magnolfi