Oltre
il vecchio muro di pietra in fondo alla strada non c’è più niente, se non un
gruppo di case popolari tutte un po’ simili, dai colori attorno ad un
indefinibile grigio-giallino levigato dal tempo. Alvaro se ne sta in piedi
vicino alla finestra sopra una sedia che ha coperto con un giornale per evitare
che se ne sporcasse la seduta con la suola delle sue scarpe, ed osserva quei
panni stesi, quelle persiane spalancate, quei tetti di tegole brune. Lui
starebbe lì anche per delle ore, a rendersi conto di qualsiasi dettaglio riesca
a notare: qualcuno che si affaccia a chiamare un bambino giù nella strada, una
donna che scuota uno spolveratoio dal davanzale, i piccioni che trovano da beccare
qualcosa sui terrazzini.
Certe
volte ad Alvaro gli pare persino impossibile che il meccanismo della realtà
appaia così perfetto, e che tutto in qualche maniera trovi il suo compimento;
non sa mai spiegarne il perché, anche se in qualche occasione gli pare che il
mondo brilli soltanto nel confronto con la sua vita. Si sente sempre sbagliato,
Alvaro, qualsiasi cosa si metta a pensare; sospetta subito, quando ha un’idea,
che non sia quella giusta, che stia perdendo l’occasione per qualcosa che forse
potrebbe funzionare, e che invece inesorabilmente si sciupa già nel momento
stesso in cui ci ha fatto conto. Il resto invece è semplicemente meraviglioso,
per questo resta sempre in silenzio, proprio per non sciupare niente di quello
che esiste.
Così
gli piace osservare le cose, quelle poche che riesce a vedere dalla sua
finestra. Qualche volta, quando tira un poco di vento, Alvaro si incanta a
sentire chioccolare i vetri chiusi davanti al suo naso: gli piace quel vento, è
come se lo sentisse soffiare direttamente sulla sua faccia, e gli pare che
arrivi da chissà dove, da luoghi che non ha mai conosciuto e che per questo
motivo gli sembrano assolutamente affascinanti. Apprezza anche la pioggia
quando scurisce tutti i colori, ma il momento che apprezza di più è quando il
vento è così forte da far oscillare quegli alberi in fondo, oltre le case, alti
e maestosi di foglie.
La
sera, alla fine di quella strada, proprio a ridosso del muro che in qualche
modo la chiude, si radunano sempre quattro o cinque operai ancora vestiti delle
tute con cui hanno lavorato per tutta quella giornata. Si piazzano là, le
spalle appoggiate alle pietre, e parlano probabilmente di cose leggere, di
argomenti che facciano ridere e su cui sono certamente d’accordo. Scuotono le
mani e le braccia mentre raccontano ognuno una parte di storia, e Alvaro
insiste a guardarli, come fosse capace di comprenderne le parole scambiate. Poi
se ne vanno, e lui immagina di andare con loro, come potesse assoggettarsi a
cane fedele di ciascuno, o come se fosse sufficiente essere insieme a quegli
uomini, per sentirsi davvero come si sentono loro.
Invece
l’anziano padre di Alvaro lo osserva alle spalle, come fa tutte le sere, gli
dice qualcosa senza importanza, poi gli chiede di seguirlo in cucina, di sedersi
al suo tavolo, di parlare di ciò che ha sentito durante quel giorno, ma lui non
riesce mai ad esprimersi come vorrebbe, si limita a guardarlo, a sorridergli,
pensando alle mille immagini che conserva dentro di sé, e che non riesce a
fargli vedere, ma che vorrebbe tanto condividere con lui, perché sono le uniche
cose importanti di cui trattiene memoria: una memoria volubile, certo, come una
scatola dove le cose entrano ed escono, come il vento che porta con sé tutto quello
che vuole.
Bruno
Magnolfi