Ho
visto scritto sopra al muro il mio destino. Per questo ho subito voltato lo
sguardo verso gli alberi, lungo i giardinetti desolati, al margine di questa
piazza, dove le persone spesso si ritrovano, e spesso parlano tra loro, come se
soltanto questo fosse il compito fondamentale di tutti i cittadini. Quegli
alberi sembrano patiti, i rami rinsecchiti, le foglie parzialmente smunte, e le
persone che stanno sempre da queste parti, anche se fingono di non accorgersene
mai, sono virtualmente colpevoli di quanto è già accaduto, come se adesso tutto
l’attuale panorama che è possibile osservare, fosse oramai un elemento
sostanzialmente invariabile, quello e basta. Sorrido: forse va bene, non c’è
problema, anche se alla fine questa è soltanto la piazza del mio paese, un
agglomerato di case a cui non sono neppure troppo attaccato sentimentalmente.
Le
pietre stanno ferme, la loro superficie è fredda e immobile, cammino
rasentandole, e intanto penso che non ci sia altra possibilità se non ignorare
il messaggio di chi ha voluto porre proprio qui la sua firma quasi indelebile.
Mi avvicina un ragazzo, dice che le giornate sono corte, fa freddo, che si sta
bene soltanto in posti riscaldati, a scambiarsi le opinioni davanti ad un
bicchiere, se si toglie queste due o tre ore di sole, magari accanto al muro
che chiude al vento e alla temperatura rigida di questo periodo. C’è una
scritta, dico: qualcosa che indica forse
cosa ci sia da fare in questi giorni, dove ogni contrapposizione blocca la
volontà, lasciando campo soltanto alle mediazioni. Poi seguo il ragazzo,
entriamo insieme nel caffè che si apre sulla piazza, e tutto improvvisamente
sembra allegro, le persone si salutano, pare si snodi come una ritrovata
civiltà.
Mi trattengo
poco, in fondo credo di non avere quasi niente da spartire con tutti questi
personaggi, se non la voglia di nuovo, di cambiamento, commisurata con il
bisogno profondo che tutto resti esattamente tale e quale. Torno al muro, da
solo, ma quello non si abbassa a dire nient’altro, lascia che tutti gli
argomenti trattati riescano ad equipararsi, in modo da lasciarli ad una propria
soluzione, e tutti coloro che abbiano la voglia di passare proprio da queste
parti, restino sostanzialmente indifferenti a quanto questi sassi paiono
suggerire.
Torno
indietro, costeggio il muro quanto più possibile, proprio alla ricerca di
sentire ancora la sua voce, poi attraverso la strada, e vado incontro alle mie
cose di sempre, quasi senza pensieri. Incontro il ragazzo di prima, dice adesso
che neanche lui si trova bene in questo pozzo di luoghi comuni, circondato
spesso da mancanze, più che da proposte e affermazioni. Percorriamo assieme uno
stesso pezzo di strada, poi ognuno volta per la propria direzione, e nel saluto
frettoloso che adesso ci scambiamo c'è la tristezza di non riuscire ad incidere
affatto sulla realtà che ci circonda, quella piccola, appena esterna alla
nostra privata quotidianità. Rientro in casa pensando ancora al muro: in fondo
lo odio, rifletto; e per questo credo che per nessun motivo tornerò a
considerarlo come certe volte ho fatto: un simbolo silenzioso delle mie
giornate.
Bruno Magnolfi
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