“Forse
era addirittura meglio prima”, dico io. “Non che davvero andasse bene sentirsi
obbligati a stare chiusi ognuno in casa propria, però era quello il momento di
ritrovare alcuni valori individuali, ripensare con calma le proprie cose, e
soprattutto evitare questa socialità falsa che adesso ha già ripreso ad
imperare”. Attorno a me tutti mi guardano con sospetto, probabilmente qualcuno
vorrebbe addirittura screditare con una semplice battuta quello che sto
dicendo, però tutti si trattengono, mi guardano, sanno che per certi versi le
mie parole non sono mai delle sciocchezze. “Bisogna stare bene con se stessi”,
aggiungo, “piuttosto che mostrarsi in giro con il vestito migliore”. Poi me ne
vado, nessuno ha avuto niente da dire, forse non c’è nessun interesse nel
mettersi in contrasto con uno come me. Sono stato sindaco di questa piccola
città, quasi quattro mandati addietro, ed in quella manciata di anni mi sono
reso conto che la mentalità della gente è sempre l’elemento più difficile da affrontare
e da cambiare.
In
ogni caso non ho certo rinunciato a dire a tutti la mia opinione, ed anche se
oramai mi faccio vedere in piazza solo in qualche giornata particolare, ogni
volta incontro sempre qualcuno che mi chiede un parere. Riflettere, questo
credo sia l’elemento che sfugga più di tutto alle persone. Poi, mentre torno a
casa con le mani sprofondate nelle tasche, mi chiedo a che cosa possa servire
parlare con i miei concittadini, spiegare loro quello che penso, vedere sulle
loro facce i soliti dubbi di ogni volta, quelli destinati a chi è sempre stato un
po’ contro corrente, sciolto dalle logiche politiche e di potere. Si vive un
periodo storico così particolare che basta alzare la voce e dire qualcosa di
stringente per farsi seguire da qualcuno, ed oramai così deve essere fatto sia
da parte di chi è onesto, che da parte di chi onesto quando parla non lo è,
perché ambedue resterebbero senz’altro indietro comportandosi
diversamente.
Quindi
rientro nel mio appartamento, mi siedo alla scrivania per godere appieno della
mia intimità, e metto giù rapidamente qualche appunto sulla carta per la
costituzione faticosa di un mio diario, qualcosa che vuole tenere memoria di
questi giorni, di questi pensieri, di questo sentire diffuso che si respira tra
le persone. Ma questo pomeriggio non trovo neppure una parola giusta da
aggiungere a quanto ho già scritto nei giorni appena trascorsi, così mi fermo,
lascio tutto da una parte e poi torno ad uscire di nuovo, con la scusa di
andarmene dal tabaccaio a comprarmi delle sigarette che peraltro fumo
raramente. Ma sul portone incontro un tizio che ho già rivisto qualche volta,
ma con il quale non ho mai parlato. Mi ferma: “non va bene quello che hai detto
oggi”, mi fa. “Ci sono delle cose che non hai compreso”, aggiunge sottovoce; “o
che forse non hai mai voluto prendere in considerazione”. Lo guardo con
interesse, cerco di capire verso dove voglia andare questo suo discorso, e lui,
che capisce il mio dubbio, mi respinge dentro l’ingresso del condominio.
“Devi
pagare”, mi fa, senza darmi neppure una qualche motivazione. Tira fuori un lungo
coltello, forse per mostrarmi che non scherza, e lo fa con calma, guardandomi,
senza un briciolo di esitazione o di perplessità. Improvvisamente mi rendo
conto che le cose stanno precipitando molto più seriamente di quanto potevo
immaginare, e forse vorrei anche dire qualcosa, cercare di far ragionare in
qualche modo questo strano tizio che neppure conosco, ma alla fine decido di
restare in silenzio, forse per paura, o per rendermi perfettamente conto delle
sue intenzioni, o anche nella semplice attesa della sua prossima mossa. Lui si
abbassa leggermente, come rendendosi conto all’improvviso di qualcosa, ma poi
mi sferra una coltellata dolorosissima in una coscia, come per mostrarmi la
concretezza del suo progetto. Cado a terra, mi esce ovviamente del sangue, ma
non è una ferita grave, e lui invece se ne va, aprendo il portone e sparendo
senza fretta.
Bruno
Magnolfi
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