“Ho paura”,
dice lui. “Non tanto della malattia, dell’ospedale, o delle cure; quanto delle
conseguenze che può lasciare tutto questo”. Lei si muove nella stanza, e
piegandosi sulle ginocchia apre con decisione
uno sportello del mobile più grande, ne tira fuori qualcosa, una coppa di
vetro brillante e colorato, ne osserva la trasparenza con una certa attenzione
per qualche attimo, ed infine la rimette al proprio posto. “Siamo tutti
immobili a cercare l’equilibrio giusto tra le cose”, fa lei quasi sbuffando;
“l’incertezza, è il dato più evidente”. Lui resta in silenzio, poi si alza
dalla poltrona e si avvicina ad una finestra, cercando di individuare là fuori
qualcosa di diverso dall’ultima volta che si è fermato a guardare quello
scorcio di strada sottostante. “Non si può proprio fare nulla”, dice lui
sottovoce, quasi cercando una parola finale su cui appuntare ogni sua riflessione.
Suona il
telefono, è un’amica di lei che adesso le chiede come vadano le cose. “Niente
di speciale”, le risponde la donna; “come tutti stiamo nell’attesa che qualcosa
si risolva”. Lui si muove nervosamente dentro la stanza, infine esce, come a
mostrare che quel tipo di conversazioni non gli piacciono, tornando a farsi
vedere in quel salone soltanto quando lei ha finalmente salutato la sua amica e
riattaccato la cornetta. "Stiamo tutti quanti a chiamarci l’un l’altro
sapendo comunque benissimo di dirci sempre le medesime cose", fa lui come
se la telefonata avesse interrotto tra loro due qualcosa di importante. Lei si
accende una sigaretta restando seduta presso il grande tavolo tondo di legno
scuro, lo guarda per un attimo senza assumere alcuna espressione, infine si
alza e va a controllare a sua volta se ci siano novità fuori dalla finestra.
"È tutto fermo", fa lui;
"non ci sono variazioni, alcun cambiamento, niente; se non che questa
attesa ci sta limando i nervi a tutti". "Solo pensare che è così anche
in qualsiasi altro posto mi fa sentire impotente", fa lei tanto per dargli
l'impressione di stare dalla sua stessa parte. Poi però si muove, apre una
rivista che aveva lasciato sopra al tavolo, e ricomincia a leggere qualcosa
mettendosi seduta con comodità. "Non so come fai ad essere così
tranquilla", dice lui di scatto. "Difatti non lo sono", fa lei;
"però non ho voglia di essere presa nel mezzo da qualcosa che neanche
conosco". Lui la guarda, forse vorrebbe dirle che ci potrebbero essere
anche altre maniere per dimenticarsi della situazione, magari meno
individualistiche; però non dice niente, e cerca subito di occupare la mente
con qualcosa che lo faccia sentire almeno utile.
“La mia paura è anche quella di non essere
all’altezza della situazione”, torna a dire lui alla fine, forse per distrarre
la donna da quella sua lettura silenziosa. Lei lascia trascorrere qualche
secondo; “se ti ammalassi non credo ti verrebbe chiesto qualcosa al riguardo”, gli
fa senza neanche osservarlo; “tutto precipiterebbe rapidamente in quel caso,
senza che ci fosse neppure il tempo di venire a chiederti cosa ne puoi
pensare”. Lui si mostra stizzito da queste parole, gira per la stanza come
cercando qualcosa su cui fermare il proprio sguardo, poi risponde: “ci sono
molte maniere di affrontare un’importante malattia che può portare a
conseguenze gravi, non capisco come fai a non rendertene conto”. Lei sorride, cerca
di evitare l’accensione ulteriore in lui della suscettibilità che mostra
adesso, ma appare evidente che avrebbe molto da ridire, come ad esempio la
preoccupazione che sospetta in lui di ciò che potrebbero pensarne gli altri, i
suoi colleghi di lavoro, le sue conoscenze, le persone che frequenta insomma. “Nel
caso sentenzieremmo soltanto che eri un gran brav’uomo, se è questo che tanto
ti preoccupa”, gli fa. Lui si muove, e misuratamente apre lo sportello del
mobile, prendendo in mano la coppa di vetro colorato a cui lei sembra tanto legata,
la guarda per un attimo e poi la rompe a terra, fingendo una sfortunata sbadataggine.
“”Non importa”, gli fa lei. “Tanto mi aveva già annoiato”.
Bruno Magnolfi
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