Davanti alle enormi vetrate, di
fronte all’ingresso, c’è un enorme piazzale asfaltato riservato al parcheggio.
Difficilissimo trovare là in mezzo un posto auto fino a qualche tempo fa, tanto
che ultimamente fa quasi tristezza rendersi conto come spesso in questi giorni
rimanga quasi vuoto. “Ho perduto la spinta”, fa lui all’improvviso mentre
guarda le poche macchine ferme brillare adesso nel sole, qua e là. “Non dire
sciocchezze”, fa lei dopo un attimo senza neppure guardarlo, mentre riordina
alcune cartelle dei suoi pazienti dentro l’ufficio al secondo piano del piccolo
ospedale cittadino. “Dico sul serio”, prosegue lui; “la missione che sentivo
dentro di me si è come intorpidita in queste ultime settimane, ed adesso non
sento più quel bisogno di profondermi verso gli altri che avvertivo da sempre
dentro di me”. Lei interrompe per un momento il suo compito, osserva di fretta
il profilo di quel medico che è sempre stato il suo punto di riferimento, poi
fa: “sei stanco, indubbiamente; è normale sentirsi così in questo periodo,
anche d’improvviso”.
Poi ambedue scendono le scale,
sempre tenendosi a dovuta distanza, salutano qualcun altro medico del personale
che sta montando proprio adesso di turno, ed infine si fermano per un momento
sul largo pianerottolo del primo piano, si accostano con calma alle macchinette
per il caffè ed inseriscono uno alla volta la propria moneta prendendosi ognuno
una bevanda calda. “Non so”, dice lui, “probabilmente non dovrei neanche
parlarne, specialmente in un momento come questo, ma è come se all’improvviso
tutto mi apparisse identico, monotono, sterile di qualsiasi possibile slancio.
Sono cosciente del fatto che tutta la gente stia tifando per noi, per il nostro
sacrificio in corsia, per la disponibilità totale che stiamo dimostrando, però
qualcosa di intimo si è inserito dentro di me, ed anche se ancora sono orgoglioso
di essere parte del meccanismo sanitario di questo paese, adesso però mi sento
a terra, senza più alcuna volontà per andare avanti”.
Lei lo guarda, e nota effettivamente
una stanchezza profonda nella sua espressione, come se qualcosa davvero non
avesse funzionato negli ultimi giorni durante il suo necessario ripristino
quotidiano di entusiasmo, ed adesso provasse per questo motivo un intenso
disagio, quasi un’incapacità a riprendere in mano il compito abbracciato e
scelto per sempre. Sorseggia per un attimo il suo caffè, come sempre senza
apprezzarlo, a compimento comunque del solito rito di fine turno, e poi pensa a
tutte le parole che ha appena ascoltato dal suo esperto collega, senza riuscire
ad obiettare qualcosa che abbia un minimo senso. In fondo è normale sentirsi
svuotati quando tutto un paese ha richiesto da te il massimo in ogni possibile
momento del giorno, pensa come fosse da sola. Ma non sa dire niente, niente che
possa opporsi a quanto ha appena ascoltato.
Ambedue gettano i bicchierini
monouso dentro un bidone, poi rapidamente raggiungono la postazione dove si
deve far strisciare il proprio cartellino dentro a una macchina, e compiono
questa operazione esattamente come ogni giorno, in qualsiasi inizio o fine
turno, forse senza neppure provare una particolare emozione. Escono, e finalmente
sono all’aperto, davanti all’ampio parcheggio delle vetture, nell’aria pura e
leggermente ventosa della serata, quasi priva da tutti i bacilli che purtroppo circolano
dappertutto là dentro, in quella casa di cura, lasciandosi alle spalle un’altra
giornata ordinaria, un altro turno concluso, un ulteriore servizio per la
cittadinanza a cui generosamente hanno dato seguito, come ogni volta si deve,
senza porsi domande, senza creare complicazioni. Quindi si salutano, senza dire
altro, scambiandosi soltanto alcuni pensieri comuni, perché ognuno dei due ha
una casa verso dove dirigersi, e ricaricare la propria abnegazione.
Bruno Magnolfi
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