Non ci sono
più state delle vere giornate di riposo, da quando è iniziato tutto. Ho
continuato a dirmi da sola, quasi continuamente, che questo è soltanto il mio
lavoro, e quelle che mi trovo davanti a me durante questi turni infiniti alla
casa di riposo non sono neppure delle persone vere, perché non hanno niente di
simile a me oppure ai miei colleghi: sono soltanto coloro di cui devo
occuparmi, uomini e donne anziani come sono, spesso ammalati gravi, infermi,
qualche volta alla fine, soltanto corpi, di cui noi del personale di assistenza
ci dobbiamo prendere cura, così come è stato già previsto dai nostri protocolli
di contratto, fino al possibile raggiungimento del loro ultimo momento, e dopo
basta, senza neanche conservarne poi troppa memoria. Perché, se per esempio
cominciassi a farmi prendere emotivamente da quelle loro espressioni, dalle
piccole storie che certe volte qualcuno mi ha raccontato, da quegli occhi
imploranti, dalle mani che spesso cercano di stringermi, non potrei mai più
fare questo mestiere. Distaccata, ecco come devo essere, professionale, con lo
sguardo sugli strumenti quando ci sono, per controllare che tutto vada bene,
che non si verifichino delle dimenticanze nelle terapie, nell’ascolto dei loro
lamenti, oppure in quel continuo accudire di ogni bisogno, di qualsiasi
necessità; e poi rimanermene sempre lontana il più possibile da quel particolare
modo di essere stato di ognuno di loro per tutti quegli anni che portano sopra
le spalle, ed infine restare indifferente anche a quella personale maniera che
molti hanno adesso nella semplice dimostrazione di aver addirittura vissuto per
tutto questo tempo.
Non si
lamentano sempre, molti di loro anzi non dicono quasi nulla, lasciano con distacco
al personale che hanno più vicino, sempre pronto ad occuparsi di tutto al posto
loro, il compito di fare qualsiasi cosa sia necessaria, qualsiasi cosa di cui
se ne ravveda l’emergenza, e dopo basta. Non ti guardano nemmeno, in tanti
casi, quasi fossero indifferenti, disinteressati sia di noi del personale, che
di ciò che li circonda, come se anche loro si fossero in qualche modo già
distaccati dal proprio corpo, ed adesso osservassero se stessi quasi da una
diversa dimensione. Certe volte mi arrabbio con qualcuno di loro, cerca di
scuoterlo, di fargli prendere coscienza di quello che sta succedendo, di quello
che rappresentano, e della vita che ancora possono vivere se reagiscono, ma non
ottengo mai assolutamente niente, e resto lì come una sciocca, a chiedermi come
mai continuo a perdere del tempo, quando in questo luogo devo solamente
lavorare.
Giunge poi
questa donna dalla pelle rinsecchita e tutta grinze a dirmi che loro sono soltanto
tutti vecchi, e per questo sono deboli, fragili i loro organi, prendono i
bacilli con facilità, quindi si ammalano, soffrono, patiscono lentamente
cercando forse di pensare a tutto ciò che neppure si ricordano del proprio
passato, e di quello che è stato negli anni precedenti, e così sono anche più
soli, isolati da una reale incapacità a difendersi, facili prede di qualsiasi
malattia voglia presentarsi. La guardo un attimo: “non si preoccupi”, le dico,
“sono cose che sappiamo bene tra tutti i miei colleghi; noi facciamo il
massimo, voi dovete soltanto fare la vostra parte, e lasciarci lavorare”. Lei
mi guarda, forse vorrebbe soltanto reclamare qualcosa, farmi comprendere con le
sue maniere lente che non è sempre stato così, che c’è stato anche un lungo
periodo della loro vita in cui hanno provato delle emozioni, dei forti
sentimenti, magari dando prova d’intelligenza e di indubbie capacità
d’intervento nei campi più disparati, che fosse stato l’andamento della propria
famiglia o le redini di una complessa società, e che adesso è rimasto tutto
dietro le loro spalle fragili, e che non c’è più altro da fare. Mi fermo, resto
colpita dalle sue parole, così le faccio una carezza, ma subito le dico con
freddezza che non è certo torturandosi che le cose potranno migliorare. Poi
esco, vado subito nello spogliatoio deserto, apro l’armadietto dove stanno le
mie cose, e subito inizio a piangere come una sciocca, anche se lo so, lo so
benissimo, che non dovrei mai farlo.
Bruno
Magnolfi
Nessun commento:
Posta un commento