Ricordo
ancora la mamma, seppur vagamente, in quei giorni in cui dovette ricoverarsi in
ospedale. Ero piccolo, sicuramente non mi rendevo troppo conto delle cose che
accadevano attorno a me, ma nessuno tra coloro che avevano delle notizie certe
si preoccupava di spiegarmi mai niente, in quanto ero costantemente giudicato
come un solitario, un tipo silenzioso, indifferente a tutto, nell’opinione di
molti semplicemente un bambino capace di preoccuparsi soltanto della propria
persona. Ma io mi sentivo simile a lei, che difatti appariva una donna
silenziosa, schiva, distaccata dagli altri, e che anche in presenza di una
malattia seria come quella che le era stata diagnosticata, tendeva a non
lamentarsi, a minimizzare, e a non dare delle informazioni a nessuno, tenendosi
ogni riferimento per sé, persino nei confronti di suo marito. Dovevo aver
sofferto in quei giorni, roso come mi sentivo anche dal dubbio di non essere
all’altezza della situazione, e per questo motivo proseguivo il mio gioco di
apatico, tanto da aver rimosso negli anni seguenti ogni dettaglio di quanto
probabilmente dovevo con certezza aver preso per serio e anche per drammatico.
Dopo che la mamma era tornata a casa dalla clinica, i suoi modi e la sua
espressione mi apparvero come cambiati per sempre. Si era subito messa a
svolgere le cose di ogni giorno, ma agli occhi miei non era più la stessa
persona, ed anche se forse ero in pena per lei in quel periodo, mi sentivo
distante dai suoi tormenti e dalle sue evidenti preoccupazioni. Nel giro di
pochi mesi iniziò a non muoversi più dalle nostre stanze; sosteneva che le
scale condominiali le davano disturbo, e così mandava sempre me a comprare
qualsiasi cosa le fosse necessaria. Ci vollero diversi anni prima che giungesse
alla fine, ma fu un tempo dannato, in cui lei quasi non fu più la mia mamma.
Adesso mi
viene da pensare che fu ugualmente in quel periodo che io, preso com’ero da
tutti i problemi di convivenza con i miei coetanei, iniziai ad essere quasi
grande, e a rendermi pressappoco autonomo, almeno mentalmente, dalla mia
famiglia. Andai alle scuole medie, e da lì iniziai subito un percorso di
avvicinamento ai miei compagni, pur conservando la mia personalità. Nessuno mi
dette retta, se non Marta, questa ragazzina solitaria da cui forse mi sentivo
attratto, nella stessa maniera però di come ci si incuriosisce della propria
immagine riflessa dentro uno specchio. Adesso vorrei tornare indietro, proprio
a quegli anni, se non altro per avere la possibilità di cambiare molti tra
tutti i miei comportamenti di allora. Rendersi conto degli errori sembra sia
già un’evoluzione del pensiero, ed io sicuramente sono cosciente adesso dei
diversi sbagli che ho commesso. Mi viene incontro quel ragazzino che ero, certe
volte, e mi dice che non sono stato capace di trattenere per me neppure le
poche cose buone di quel periodo. Mi guardo attorno mentre sono sul mio posto
di lavoro, e mi rendo conto che ognuno di noi prima o dopo deve fare i conti
sia con le opportunità che una volta o l’altra si è lasciato sfuggire, sia con
i comportamenti negativi che ha mostrato con maggiore evidenza. <<Sei tu,
che non sei stato capace di essere un ragazzino come gli altri>>, gli
dico adesso.
Lui mi osserva un attimo, forse
ha sofferto per la mamma ancora più di quanto si fosse reso conto lui stesso
negli anni seguenti, e quel dolore profondo e inestinguibile probabilmente è
riuscito a marchiarlo per sempre. Non dice niente, non risponde, ma io so che
vorrebbe urlare adesso che era la rivincita su quella serie di sfortune che ci
avevano segnato a dare la spinta per trovare delle cose positive da mettere in
campo, invece di rinchiudersi sempre di più come, secondo lui, ho fatto io. In
qualche misura non posso dargli torto del tutto, però quando sono rimasto da
solo, dopo la morte della mamma e, a distanza di solo tre anni, anche di quella
del babbo, mi sono trovato sbandato, privo di qualsiasi riferimento, ma con
un’età da appena maggiorenne che rivendica per la propria persona delle scelte
sicuramente sostanziali. Ripenso alla mia amica prostituta, quando viene da me
a prendere un caffè durante le notti sospese di questo albergo dove lavoro.
<<Devi imparare ad accettare i tuoi comportamenti>>, mi dice certe
volte, ed io annuisco, poi rifletto che forse lei ha proprio ragione, ma è così
facile darle ragione e poi smettere di tormentarmi, che subito mi prendono
degli ulteriori dubbi.
Penso che la mamma non sarebbe
stata comunque in grado di aiutarmi, se anche avesse vinto la sua battaglia
contro la malattia. Si chiuse in sé stessa, sempre di più, mentre le terapie
che seguiva non le riuscivano a dare nessun particolare beneficio. Mio padre,
forse per non soffrire accanto a lei, iniziò a stare a casa sempre di meno,
magari per un moto di comprensibile vigliaccheria. Io, intanto, all’epoca
proseguivo con le mie piccole battaglie, ma sapevo già di essere un perdente, e
che probabilmente non sarei mai riuscito a cambiare il mio destino.
Bruno Magnolfi