Nonostante siano
trascorsi quasi quarant’anni, ricordo con precisione quel giorno in cui,
percorrendo a passo lento la strada principale del paese in cui abitavo per
recarmi come ogni giorno alla Scuola Elementare di Via delle matite, decisi su
due piedi che sarei salito sulla prima corriera che transitava dalla fermata,
per andarmene in qualsiasi possibile luogo quel mezzo poteva trasportarmi,
forte di alcuni soldi che avevo in tasca e con i quali potevo pagare il
biglietto necessario. Feci così, difatti, e quel mezzo pubblico pieno di gente,
come avevo ben previsto, mi traghettò rapidamente fino nella città più vicina.
Questo è il mio mondo, pensai, la ricordo bene questa riflessione; girare per
delle strade dove nessuno ti conosce, frequentare luoghi in cui nessuno ti
chiede di comportarti in un modo oppure in un altro, scegliere qualsiasi cosa
tu abbia in mente di fare, senza dover rendere conto a chicchessia. Nella
grande stazione ferroviaria di fronte a dove mi ritrovai, salii subito sopra un
treno in partenza, uno qualsiasi, e riuscii ad imbrogliare il controllore e a
non pagare alcun biglietto. Mi ritrovai, dopo circa due ore, in un’altra città
di cui non sapevo neppure il nome, ancora più grande, ancora più estraniante
della prima, e girai a caso per le strade fino a quando non mi sentii stanco e
spossato. Avrei potuto telefonare a mia madre a quel punto, dirle di non preoccuparsi
troppo per me, ma il senso di libertà che riuscivo a provare in quei momenti
era tale da non permettermi alcun gesto.
Mi fermai davanti ad
una scuola elementare con i grandi finestroni vetrati, da dove si vedevano i
ragazzi mentre stavano tutti immobili e seduti ai propri banchi, ed io mi
sentivo attirato dalla voglia di ridere di loro, di prenderli in giro, di
mostrare a tutti il risultato di ciò che facilmente ognuno di loro avrebbe
potuto ottenere, proprio come me, con un impegno minimo. Poi suonò la
campanella e quei bambini uscirono rapidamente dall’istituto scolastico,
andando incontro ai loro genitori che si erano accalcati nell’attesa subito fuori
dall’edificio. Quello forse fu il momento più difficile della mia gita. Mi
sentii solo, all’improvviso, e pensai di aver tradito qualcosa nella fiducia
che forse mia madre e mio padre mi accordavano ogni giorno. Allora cercai un
poliziotto, un uomo in divisa, insomma, e gli raccontai di fretta che per
sbaglio o per gioco ero salito su di un treno, e che adesso non sapevo come
fare per tornare indietro. Forse le guardie mi chiesero qualcosa in più, anzi,
sono sicuro che mi posero qualche domanda a cui non seppi rispondere, ma poi mi
fecero salire su di una macchina e mi riportarono rapidamente a casa dalla mia
mamma. Mostravo la faccia triste, di chi ha creato un problema quasi senza
desiderarlo, ma dentro di me sentivo di essere felice, dimostrando a tutti che
ero capace di fare quello che volevo, se soltanto me lo mettevo in testa.
Il giorno seguente tornai a scuola, in via delle
matite, e immaginavo che nessuno dei compagni della mia classe si fosse
preoccupato della mia assenza. Invece si era sparsa la notizia, qualcuno
probabilmente era anche stato in ansia per me, ed io sul momento non seppi neppure
comprendere del tutto in quale maniera, ma tutti i ragazzi ora sapevano che io
avevo deciso di imboccare quella che si chiama la via di fuga. Quando la
maestra fece l’appello e disse ad alta voce il mio nome, poco ci mancò che i
compagni mi battessero le mani, probabilmente per il coraggio e la
determinazione che avevo dimostrato a tutti. Mio padre in quei giorni era
chissà dove come sempre, a trasportare delle merci con il suo autocarro, e mia
madre la sera non mi disse quasi niente; però, mentre preparava la nostra solita
cena, sentii che singhiozzava, forse perché era stata molto in pena per me, e
magari aveva immaginato addirittura che non sarei tornato più dopo la mia sparizione.
Ricordo ancora tutti i particolari di quella giornata, come quelle cose che non
ti si tolgono più dalla memoria. Forse su una cosa oggi mi è rimasto però
ancora qualche dubbio: non mi so spiegare in nessun modo il motivo esatto per
cui portai a compimento una cosa di quel genere. Soprattutto perché sapevo
esattamente che nonostante provassi delle difficoltà in famiglia, verso mia
mamma soprattutto, e poi anche verso i miei compagni di scuola, e se non ero riuscito
mai ad imbastire un’amicizia con nessuno, non era certo quella la maniera per
trovare la giusta soluzione a questi miei problemi.
Per qualche giorno in parte mi sentii addirittura orgoglioso
di quanto avevo fatto, ma subito dopo le cose ripresero esattamente ad andare
come sempre, ed anche il mio compagno di banco, che a volte nei mesi precedenti
mi aveva rivolto la parola per spiegarmi certe cose, e in qualche caso mi aveva
posto anche qualche domanda, adesso sembrava come adirato verso me, come se mi
incolpasse di qualcosa, di qualcosa che in fondo io non riuscivo neppure a
comprendere del tutto.
Bruno Magnolfi
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