Il lampione
al neon davanti a quella sua finestra di casa si accendeva sempre alla medesima
ora. Era quello il momento più triste di tutta la giornata, quando lui si
rendeva conto di essere solo e che un’altra volta il sole da qualche parte stava
già tramontando senza che niente fosse cambiato nella sua vita. La sua casa era
piccola, solo due stanze, e all’interno tutto era essenziale, tanto da far
apparire disadorne quelle due stanze, quasi vuote, soltanto il letto,
l’armadio, e un piccolo tavolo assieme a due sedie in cucina, di cui una in un
angolo, mai usata. L’assistente sociale ogni settimana suonava il suo
campanello, stava un po’ assieme a lui, gli parlava di tutto, gli faceva
qualche domanda, a volte apriva quel suo frigorifero, poi se ne andava, mai
soddisfatto del tutto, ma non gli faceva rimproveri, gli assicurava soltanto
che sarebbe tornato, domani o il giorno seguente. Poi lui restava da solo, di
nuovo, e i suoi pensieri tornavano ad essere quelli di sempre. Spesso
l’immagine di sé gli appariva sgranata, fuori fuoco, con troppo poco contrasto,
come una vecchia fotografia fatta male, dove il bianco ed il nero apparivano
spalmati di grigio e senza colore. Quel giorno che aveva capito di stare più
male del solito era uscito di casa, aveva girato quanto aveva potuto cercando
di stancarsi e sperando così di ritrovare se stesso, ma non c’era riuscito. In
ospedale si era presentato da solo, aveva spiegato che così non ce la faceva a
procedere oltre, che non sapeva come spiegarlo, ma lui stava male, quel giorno
e ogni giorno di più. “Vorrei addormentarmi”, aveva detto ai dottori non
trovando altra maniera per esprimere cosa passasse tra i suoi pensieri, “e
aspettare che tutte le nuvole sopra la testa se ne andassero via”. Lo avevano
ricoverato, lo avevano analizzato in molte maniere, nell’arco di un tempo che a
lui era parso lunghissimo; poi gli avevano dato dei farmaci e infine era stato
dimesso con una cura da fare e rispedito alla sua finestra e al lampione,
chiedendogli solo di ritornare dopo un certo periodo per effettuare un
controllo. Adesso lui si sentiva svuotato, prendeva quei farmaci, un’infermiera
andava da lui per l’iniezione, ma solo per quei primi giorni, e dormiva
tantissimo, non sognava mai niente, passava le giornate seduto guardando nel
vuoto. Poi era tornato l’assistente sociale, ma era di fretta, si era
trattenuto soltanto pochi minuti, aveva riempito come sempre i suoi fogli, gli
aveva fatto qualche domanda, infine era andato. Nei giorni seguenti lui si era
ridotto a mangiare pochissimo, poco per volta aveva dimenticato di prendere le
sue medicine, l’infermiera non era tornata, e lui non si era più presentato
all’ospedale per fare i controlli. Era dimagrito e aveva iniziato a torcersi le
mani l’una nell’altra, percorrendo tra sé strani sogni che adesso faceva anche
a occhi aperti. Un giorno poi era uscito da casa, aveva raccattato tutti i
sassi trovati dentro a un giardino, spalancato la finestra di casa, e quando si
era acceso aveva iniziato a lanciare quei sassi verso il lampione, finché lo
colpì. Gli piacque la piccola esplosione che fece il lampione spegnendosi e
lasciando nell’aria una leggera fumata, gli parve il giusto compenso per averlo
disturbato per tutti quegli anni. Così si sentì sollevato e gli parve che in
cielo per quella serata non ci fossero nuvole, e il cielo sereno e la luna
fossero sufficienti da soli a rischiarare la strada davanti alla casa; infine
si chiuse nella sua stanza ad aspettare che qualcuno venisse a cercarlo, e
forse senza volerlo si addormentò, sognando qualcosa che sicuramente assomigliava
alla vita.
Bruno Magnolfi
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