Ho chiuso gli occhi ed ho visto delle
forme di colore blu elettrico danzarmi davanti. Poi, lentamente, si è come
alzato un sipario, e le immagini sono tornate ad essere grigie come sempre in
quel mio teatrino personale. I miei sogni non rispettano un ordine, un bisogno,
una volontà, vanno e vengono senza una logica, certe volte sono semplici
sprazzi di qualcosa che mi è incomprensibile, altre volte logici e chiari nel
loro essere storia compiuta. Resto qui, in questa specie di confine mentale,
quasi un esilio. Rimango in casa, le finestre oscurate, e non mi interesso di
quello che succede là fuori; anzi, quando ci penso, immagino sempre che piova,
e che girare per strada con ombrelli e impermeabili sia tra le cose più
sgradevoli e uggiose. Nessuno mi cerca, e questo è un aspetto meraviglioso di
libertà vera nei confronti degli altri; io giro per casa con una giacca da
camera sopra le spalle, e lascio che il legno dei pavimenti del mio grande
appartamento in cui vivo da solo con un cameriere ormai anziano che si prende
cura di me, scricchioli sotto ai miei piedi mentre passeggio da una stanza all’altra.
Poi vado nel salone che funge anche
da biblioteca, come aveva voluto mio padre, e prendo un libro, lo apro, e lo vado
a leggere seduto su una comoda vecchia poltrona di cuoio. Vado avanti così,
mesi su mesi che sfuggono via, muovendomi tra lampade basse che rischiarano gli
angoli delle mie stanze, nuotando immerso nel silenzio di casa, mosso da mille
pensieri scombinati e incoerenti che mi attraversano continuamente la testa.
Vado avanti così, e nei libri che leggo e che certe volte rileggo di nuovo,
trovo tutta la linfa vitale che serve, tutta l’energia di cui ho bisogno. Poi
torno a chiudere gli occhi e i miei sogni riempiono velocemente ogni spazio,
coinvolgendo tutta la mente con immagini e fatti che non ho mai vissuto, e nei
quali la mia fantasia svolazza tranquilla, a suo agio nel suo naturale
elemento. Non mi interessa sapere di essere il prototipo dell’isolato sociale;
non mi riguarda riconoscere che la mia delusione del mondo abbia annullato i
miei rapporti con gli altri. Il dottore, quando mi visita, cerca spesso di
parlarmi di cose che restano soltanto parole, e non apportano effetti. Soltanto
così come sono riesco a sopportare la vita, soltanto vagando tra queste stanze
e le mie fantasie so di essere vero, di sentirmi me stesso, anche se questa è una
rinuncia a ciò che per altri è un valore.
Il mio cameriere parla con me solo
delle cose essenziali, poi sparisce in cucina o nelle sue stanze: lui mi
rispetta ed io rispetto il suo silenzioso lavoro, come peraltro faceva mio
padre. Ma stasera l’ho scoperto mentre bofonchiava qualcosa tra sé, convinto di
essere solo. Diceva: “quel vecchio pazzo…”, riferendosi a me; e poi: “quando
c’era suo padre, era tutto diverso; quello era un uomo…”, e cose del genere.
Così l’ho aspettato dietro a una porta, e quando è passato gli ho stretto al
collo, da dietro, la fascia della mia giacca da camera. Lui si è ribellato, ha
dato numerose pedate nell’aria davanti, ha cercato di liberarsi dalla stretta
che gli toglieva il respiro, ha tentato di divincolarsi in ogni maniera, fino a
che ha dovuto cedere alla mia determinazione e alla mia forza. Quando l’ho
lasciato l’ho fatto per un moto di disprezzo improvviso per la sua persona; lui
è caduto per terra, si è rotolato sopra di sé, ha tossito per molti minuti e
lentamente ha ripreso le forze; quindi, senza aggiungere niente, ha preso la
sua poca roba e se n’è andato. Io ho passeggiato a lungo dentro la casa, e ho
lasciato scricchiolare più volte quel legno dei pavimenti sotto ai miei passi. Infine
la spossatezza mi ha preso, così sono andato a sedermi sopra alla mia solita
poltrona di cuoio e ho preso sonno in pochi minuti: sono tornate le solite
forme di colore blu elettrico davanti ai miei occhi e tutto mi è parso
riprendere l’andamento di sempre, la mia vita d’ombra, la mia realtà
incomprensibile a tutti, tutto ciò che ho voluto da sempre, come un sollievo
per la mia anima vuota.
Bruno Magnolfi
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