Respiro
con maggiore profondità, cerco di calmarmi dopo che ho colpito a mani nude, con
una violenza che adesso, dopo pochi minuti, quasi non mi riconosco neppure,
qualcuno che in fondo, forse semplicemente, proprio come me, stava immerso in
questa calca incredibile. Sono convinto di aver messo in quel colpo tutta la
rabbia repressa che sono riuscito a far emergere in me da questo periodo
difficile, quasi la consapevolezza di un momento praticamente senza speranza che mi ha dettato quel gesto terribile, come fosse
un atto definitivo, quasi dipendesse da quello lo sviluppo di un futuro
maggiormente accettabile sia per me che per gli altri.
Adesso
mi sono rifugiato nella nicchia di questo portone, guardo la manifestazione che
continua a sfilare lungo la strada, mentre qualcuno, laggiù davanti, tira sassi
e maneggia le spranghe; altri corrono, in molti sembrano disperati forse del
loro stesso spavento, altri, al contrario, semplicemente spaventati dalla loro assurda
disperazione. Alcune vetrine sono state spaccate e tutto intorno sembra parlare
di violenza, ma soprattutto i celerini continuano a fronteggiare chiunque, come
una moderna falange, in un assoluto e minaccioso assetto da guerra, quasi una
sfida, una provocazione. Vedo qualcuno a terra già manganellato, giace sopra
l’asfalto nelle nuvole dei lacrimogeni, mentre altri tentano di soccorrerlo pur
nel caos generale.
Provo
a respirare con maggiore normalità nel mio fazzoletto, ma mi sento stanco,
esausto, mi fanno male gli occhi e le gambe per la corsa assurda che ho fatto, e
sento un forte dolore anche alla mano sanguinante con cui ho sferrato quel
pugno; ricordo soltanto una faccia nemica ad un passo da me, e quella minuta
porzione di tempo per decidere tutto: il mio bisogno di scaricare la rabbia coltivata
da mesi sopra quell’espressione, senza chiedermi niente, senza interrogarmi su
altro, colpire e basta, senza pensare.
Guardo
tutti mentre continuano a girare in quel carosello: ognuno sembra soltanto
preoccupato di sé, della propria incolumità, ed io mi rendo conto, nella confusione
pazzesca, di aver perso completamente di vista quegli altri, quelle persone con
le quali all’inizio avevo raggiunto la mia postazione, alle spalle dello
striscione, e come adesso io non riesca più neanche a capire cosa sia meglio
che faccia, che senso abbia per me continuare a stare qui o cercare di
andarmene, magari sparire prima che tutto degeneri ulteriormente. Mi rannicchio
quanto posso sopra questo portone, poi spingo leggermente con la schiena, ma
senza nessuna intenzione, e quello si apre.
Entro
titubante in quel grande ingresso buio, riaccosto il portone e mi avvicino al
muro; poi rimango lì, a respirare quella calma irreale, quel relativo silenzio,
quell’aria buona per i polmoni. Forse vorrei che qualcun altro mi raggiungesse,
penso velocemente che non posso restare da solo proprio in questo momento, ho
voglia di sapere cosa succede in mezzo alla strada, mi sento terribilmente
vigliacco a restare qui immerso in quest’ombra. Ad un tratto si accende la luce
elettrica che va ad illuminare improvvisamente un ambiente anche più caldo e
piacevole di quello che mi ero immaginato, con una grande scalinata che si apre
sul fondo; resto immobile un attimo, attendo gli eventi con gli occhi sgranati,
infine scende con lentezza una ragazzina di dodici o tredici anni, con qualcosa
dentro una mano. Mi guarda, forse ancora più intimidita di me, allunga un
passo, lentissimo, poi dice soltanto: signore, le ho portato un po’ d’acqua da
bere.
Bruno
Magnolfi
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