Sto dietro con noncuranza a questo microfono gracchiante,
come se da solo riuscisse a coprire la mia espressione vagamente divertita e
potesse lasciarmi libero di pensare ciò che voglio. Fingo di leggere qualcosa
di queste carte che ho tirato fuori dalla tasca e che adesso spiego tra le
mani, ma prendo solamente tempo, infilo appena delle pause tra queste parole,
quasi nell'attesa che mi sovvenga l'idea portante per tirare avanti questa
specie di lettura, dentro ad un locale dove mi dicono avvengono quasi ogni sera
cose come queste. Non ci sono molti curiosi ad ascoltarmi, anzi, decisamente
sono pochi, ma che importa, l'importante è stare qui, proseguire a snocciolare
queste sillabe, ad arrotondare le vocali, soffermarmi sopra delle espressioni
vagamente musicali, attrarre in qualche modo l'attenzione. Sono abituati qua
dentro, sanno perfettamente cosa avviene da questa parte del microfono, non
staranno a preoccuparsi se non c’è una vera storia.
Ad essere sincero non avrei neppure niente da dire, spero
soltanto che nessuno tra coloro che
proseguono a seguire i miei discorsi ne sia troppo cosciente. Vado avanti, tiro
fuori le parole, in fondo non mi costano un bel nulla, e fingo impegno,
sentimenti, ispirazione, anche se in realtà non avrei neppure troppa voglia di
starmene qui ad improvvisare questa improbabile letteratura. Il punto è che
tutto ormai è già stato detto, ne sono più che sicuro, e oramai non si riesce a
trovare più niente di nuovo. Per rovescio, qualsiasi cosa possa dire, sono
convinto che non cambierà la sorte di questa specie di lettura sgangherata.
Applaudirà, ne sono più che sicuro, questo manipolo di
sciocchi, qualsiasi cosa io sia riuscito a dire durante questa mia
improvvisazione, nonostante sicuramente quasi nessuno sia stato a cercare di
riflettere sulle mie parole. Vado avanti, ormai non posso fare altro, continuo
a liberarmi di qualcosa che non è neppure scritto sopra questi fogli. Il mio
parlare nel microfono mi pare quasi un semplice rimando di due specchi dalle
facce opposte, nei riflessi dei quali riesco facilmente a nascondermi da tutto:
è addirittura divertente svelare qualcosa che riesco a fare falsificando
tranquillamente ciò che sembra. I miei racconti durano poco, ho detto subito
all’inizio: adesso non so se ho fatto bene o se al contrario qualcuno se ne è
già risentito. Io fingo impegno, loro fingono attenzione, in fondo pare tutta
una grande pagliacciata.
Poi mi fermo, vorrei non dover arrivare alla fine troppo
in fretta, così giro i miei fogli, cerco qualcosa che non trovo, e qualcuno
sembra spazientirsi, di fatto non so più che cosa dire e non vorrei proprio che
qualcuno lo pensasse, così invento la storia di uno che scrive dei racconti e
va a leggerli in ogni luogo dove persone ben disposte possano regalargli una
minima attenzione. Qualcuno tossisce tra queste due o tre file di sedie; se
almeno ci fosse un po’ di musica a fare da sottofondo sarebbe stato tutto più
semplificato, penso. Il mio personaggio è credibile, leggo sopra le facce di tutta
questa gente, forse questa storia appare addirittura autobiografica, e questo
provoca probabilmente un minimo di interesse in più.
Infine mi interrompo, tutti hanno compreso cosa volevo
dire, non ha importanza andare ancora avanti, così dico semplicemente che è
finito, è quasi finito, non si devono affatto preoccupare, adesso smetto, non
ci sono più parole sopra al foglio, ciò che c’era da leggere è volato, è
passato tutto dal microfono, dalle loro orecchie, in mezzo ai pensieri e alle
preoccupazioni. Ecco, è finito, ora ho proprio smesso; basta.
Bruno Magnolfi
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