Non provo nessun ripensamento, dice lei al momento di entrare nell'ingresso
destinato al pubblico di quel grande palazzo interamente destinato a quegli
uffici così particolari. L'amica ha stentato fino adesso a tenere quel suo
passo svelto, da persona determinata, lungo tutto quel tratto di strada così
lungo, ma in ogni caso ora è con lei, al suo fianco, e si mostra pronta a
sostenerla, a stare dalla parte sua, e ad evidenziarle la sua piena solidarietà.
Sono nervosa, aggiunge ancora senza aspettarsi neppure una risposta. Vorrei
tanto che tutta questa storia fosse già stata completata, e che adesso io e te
si fosse pienamente libere di fare quello che si vuole. L'altra rimane ancora in silenzio, forse
anche per non dire qualcosa di troppo scontato, poi però spiega che non ne vede
del tutto il motivo, visto che ogni particolare della faccenda sembra oramai
per essere messo sotto controllo. Lei si ferma, la guarda con un'espressione
intraducibile dietro ai suoi occhiali scuri: credi davvero anche tu che stiamo
facendo la cosa più giusta di tutte, non è vero? Oppure dobbiamo pensare meglio
qualche altra cosa, magari riparlarne, prenderci del tempo, vedere se qualcosa
per malaugurata sorte ci fosse sfuggita in questa confusione.
L'amica la guarda appena per un attimo, e dopo fa un broncio, come per
mostrare senza parole che non ci sono assolutamente dubbi, dicendo infine che
non può certo prendere lei l'iniziativa su una cosa di quel genere, ma che se
al contrario fosse proprio lei a dover decidere in questo medesimo istante,
proseguirebbe ad andare dritta su per quelle scale del commissariato, a
denunciare quanto è emerso fino adesso a carico del suo uomo. Lei la guarda,
tira fuori con finta calma il suo documento personale, lo fa vedere con
titubanza all'agente nella portineria, poi spiega che ha un appuntamento con un
certo signor ispettore. L’altro valuta tutto, fa la telefonata di controllo,
poi indica alle due donne il piano e anche il corridoio dove recarsi.
Salgono senza una parola, altre persone si incrociano con loro tra gli
ascensori e i larghi spazi dell'edificio, ed infine giungono davanti alla porta
chiusa che stavano cercando. Tutto è impersonale qua dentro, dice lei, ed anche
io mi sento un'altra donna, qualcuna che sta facendo una cosa sostanzialmente ignobile,
a cui però è stata costretta. Non so più a chi darne la colpa, semmai questa ci
sia; so che hai ragione tu, il percorso per arrivare fino qui è iniziato già da
molto tempo, e non si può certo interrompere in quest’ultima frazione di tempo.
Si aggiusta la gonna, liscia i capelli, e infine bussa e gira timidamente la
maniglia per entrare.
Sedute, di fronte ad un’enorme scrivania, loro due sono più piccole di
quanto si siano in assoluto mai sentite, e le domande pur ordinarie e previste
nella modulistica della denuncia a loro sottoposta, sembrano piovere come una
grandine improvvisa e incontrollabile, che definisce in una tettoia qualsiasi, un
generico riparo, l’unica accettabile difesa. Ci sono i nomi, le circostanze, un
numero imprecisato messo nel verbale di parole pesanti e definite, che non
lasciano dei dubbi, non ritengono sia stato il caso o l’imprudenza a
determinare i segni esatti, quel discrimine scientifico tra un prima e un dopo,
nell’impossibilità, persino in un’importante avvocateria moderna, di poter
mettersi a difendere una posizione improvvisamente così pesante, inaccettabile,
priva di agganci diluitivi o di alleggerimento. Lei soffre per quei minuti
interminabili, forse vorrebbe persino piangere, ma si trattiene, proprio perché
sa che tutto quanto improvvisamente, una volta uscita e liberata da là dentro,
sarà già divenuta una cosa troppo seria ed importante per lasciare ad una
qualsiasi donna maltrattata la possibilità di tirarsi ancora indietro, e che non
ci saranno mai delle scusanti, né in un caso, e neppure nell’altro.
Bruno Magnolfi