Le mie mani tremano
mentre osservo il mio amico assopito in un letto d’ospedale, con le macchine perennemente
in azione a prolungarne il corpo in molte delle proprie funzioni, ed io, al di
qua di una vetrata a tenuta d’aria che mi permette solamente una vista fredda e
distante da lui, mentre cerco di immedesimarmi nelle sue condizioni e di
provare il senso di quanto realmente gli sta succedendo, riesco soltanto a
provare con forza la sensazione della paura, anche se non sono capace di immaginare
bene neppure di cosa. L’aria sembra ferma attorno a me, ed anche il tempo pare
abbia subito un forte rallentamento; le luci vibrano leggermente nel perenne
gioco artificiale di gettare il loro sguardo proprio su tutto, tra i letti, i corpi,
i mobili, le attrezzature, fin nei minimi angoli maggiormente remoti di queste
stanze, ed i sanitari percorrono il largo corridoio accanto a questo mio premuroso
non ingombrarli, camminando in completo silenzio, quasi scivolando sui
pavimenti, pur carichi delle loro professionalità indiscutibili.
Magari poter davvero
essere utili, riuscire a mostrarsi precisi, puntuali, capaci, almeno con la domanda
giusta in testa da porre adesso al medico di turno, oppure all’infermiera che
si occupa costantemente di lui, in modo da comprendere meglio tutto ciò che
succede, e rendere ogni dettaglio inseribile in un contesto più chiaro e già collaudato
in mezzo ai molti pensieri. Invece che proseguire a starsene qui come sciocche
comparse di una pellicola scialba, le mani dentro le mani, lo sguardo
perennemente alla ricerca di qualcosa su cui soffermarsi, senza alcuna possibile
azione, neanche una qualsiasi, privi di scelte che non siano già state fatte, e
di possibilità differenti all’inerzia. Tanto vale andarsene, penso. Eppure
resto, perché sono queste mie mani tremanti alla fine che mostrano il mio stato
d’animo, pur nude e capaci soltanto di sfiorare questa cornice d’alluminio che
sembra immortalare in un’unica immagine la condizione umana, tutta quanta.
I ricordi, le risate,
le tante giornate trascorse senza alcun dettaglio, e poi invece le frasi
azzeccate, il gesto memorabile, la parola più adatta; un insieme di tante piccole
cose gettate adesso come alla rinfusa dentro una di queste sacche di plasma, oppure
in mezzo alle gocce di viva sostanza che tengono in piedi ogni funzione,
assieme al respiro cadenzato provocato da un mantice plastico, puramente meccanico,
privo di qualsiasi umanità eppure essenziale, come tutto del resto. La massa dei
tanti pensieri si riduce alla fine ad un pugno di pochi elementi, e ad un esile
filo che li tiene legati tra loro, e poi la pesantezza insopportabile che preme
proprio sul cuore, immaginando semplicemente la possibilità di poter essere
stato diverso, almeno in questi ultimi tempi: più vicino, più attento, forse
più disponibile, come se questo da solo riuscisse a cambiare qualcosa del
risultato.
Lo sguardo gettato
attorno, mentre si distillano lunghi minuti, pare un faro che in un attimo illumini
debolmente lo spazio ma senza vedere, come incapace di rendersi conto davvero
di ciò che il cammino lascia talvolta lungo la strada, quasi vergognandosi adesso
delle ore piacevoli, divertenti, incantate, trascorse senza bisogno di niente,
di altro, se non di quelle personalità ormai cambiate per sempre, in contrasto
al dolore, alla sofferenza, al dispiacere. Nulla, amico mio, dico soprattutto a
me stesso, non posso nutrire rimpianti di fronte alla tua battaglia in atto in
questo momento; soltanto sostenerla idealmente, accoglierla dentro di me come
mia, nella sicurezza che niente sarà mai tanto diverso qualsiasi risultato si
ponga dopo questa prova tremenda. Rimarremo gli stessi difatti, lo so, ne sono
certo, perché un inciampo durante la via è sempre previsto, ma non può in
nessuna maniera riuscire a cambiarci davvero la direzione.
Bruno Magnolfi
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