Muovo
appena le mani ogni tanto mentre resto seduto su una panchina ad osservare dei
ragazzi che giocano col pallone in un campetto oltre la recinzione. Quando
avevo la loro età mi sentivo orgoglioso di mio padre. Lui era a capo di un
gruppo di commercianti di scooter e di ciclomotori della Piaggio all’interno di
una grossa concessionaria dentro Pisa, e gli affari in quegli anni andavano
bene, tanto che io e la mamma ci permettevamo tutto ciò che ci andava, senza
mai badare a spese, e lui, che non c’era quasi mai a casa, quando infine prendeva
qualche giorno di vacanza, ci portava negli alberghi e nei luoghi migliori che
conosceva. Mi pareva per ingenuità che tutti potessero avere i nostri stessi
privilegi, che bastasse desiderarli, e coloro tra i miei compagni di scuola che
si lamentavano sempre per la miseria, lo facessero soltanto perché avevano dei genitori
senza troppa volontà di lavorare. Mio padre, in quegli anni, lo ricordo come un
signore lontano, elegante, sempre un po’ via, distante da me, capace di
intrattenere chiunque con le sue chiacchiere divertenti e cortesi, ma mai
disposto a perdere troppo tempo con me o con mia madre. Sono cresciuto con lei,
difatti, ascoltandola ogni volta mentre mi spiegava che dovevamo essere contenti
di avere un padre ed un marito così.
Lui fece
costruire la casa di Bientina, dove abbiamo sempre abitato da allora, proprio
in quegli anni, e quando vi entrammo per la prima volta a me parve persino
troppo grande e spaziosa per poter essere considerata una semplice abitazione.
Avevo persino una grande stanza dei giochi tutta per me, e poi una cameretta
altrettanto ampia, affiancata da un salottino dove stavano riposti soltanto i
miei vestiti dentro a capaci armadi a muro. Quando, più recentemente, chiesi a
mio padre di far ristrutturare interamente le soffitte, e di farne un piccolo
appartamento soltanto per me, mi parve che lui ne fosse addirittura contento,
accogliendo con favore il mio allontanarmi dalla famiglia, o almeno da lui, tanto
che l’idea di far costruire un ingresso indipendente per me e le mie nuove stanze,
fu assolutamente la sua, che tirò fuori all’improvviso come per sancire una certa
separazione. Adesso ho quasi trentasei anni, e le cose a mio padre non vanno
più tanto bene come una volta. Forse il suo desiderio attuale potrebbe essere
quello che io mi prendessi un appartamento in affitto da qualche parte e mi
staccassi del tutto da quella abitazione. Ma la solitudine di cui ho sempre
sofferto mi parrebbe in quel caso persino troppo forte per lasciarmi la volontà
di fare un passo del genere; e poi c’è mia madre, con la quale ho continuato a
tenere dei buoni rapporti almeno tutte le volte che lui è fuori da casa.
Ora i
ragazzini hanno smesso di giocare, si sono seduti da una parte e parlano di
qualcosa tra loro. Personalmente mi pare di non avere nessuno con cui parlare,
ed anche se almeno una volta al giorno scendo da mia madre per salutarla,
mangiare qualcosa, e stare un po’ insieme a lei, non posso certo considerarla
una persona alla quale fare le mie confidenze. Mio padre ha sempre preteso
qualcosa da me: non mi ha mai indicato un percorso, non mi ha chiesto cosa ne
pensassi di una cosa o di un’altra; ha soltanto detto con voce decisa cos’era
che si aspettava dal mio comportamento in ogni preciso momento della mia
crescita, fino a quando ha smesso quasi del tutto di esigere qualcosa,
abbandonandomi pur tardivamente ai miei personali desideri. Credo di averlo
spesso deluso, ma lui non ha detto qualcosa del genere neppure durante gli anni
scolastici. Si è limitato a ribadire che avrei dovuto fare così, o anche essere
così, senza mai darmi una valida motivazione per impegnarmi davvero. Non ho mai
sognato di essere come lui, se si esclude il periodo dell’infanzia, quando
forse ero troppo piccolo per aver già sviluppato un pensiero più critico. Sempre più spesso provo un senso profondo di
solitudine, forse proprio per questo comportamento che ho dovuto subire negli
anni; credo mi sia sempre mancato un supporto morale, e una sviluppata capacità
di sentirmi a mio agio con gli altri. Quando ho avuto vent’anni mi è parso per
stupidità che avere molti soldi dentro alle tasche potesse mostrarsi
sufficiente, almeno rispetto ai miei amici di allora, per dimostrarmi ai loro
occhi una persona completa e del tutto in grado di affrontare qualsiasi
avversità. Adesso sono sicuro di avere sbagliato completamente.
I ragazzi da dentro al campetto ora
se ne sono andati in silenzio, uscendo da un varco prodotto nella recinzione
vecchia e arrugginita, raggiungendo probabilmente le loro case e salutandosi con
allegria. Adesso mi sento più solo anche per questo, come se a me tutti loro non
avessero lasciato neppure un saluto, condannandomi a restare qui, abbandonato
sopra questa panchina, impossibilitato ad avere qualcuno con cui discorrere di
cose pur poco importanti, concedendomi soltanto di usare per conto proprio
quelle stesse parole che forse non sono mai riuscito del tutto neppure a
pronunciare.
Bruno Magnolfi
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