mercoledì 9 settembre 2009

Due piani più in alto.

            

            L’uomo e la donna avevano fatto all’amore, poi erano rimasti sdraiati sul letto in silenzio, a godersi la luce del pomeriggio autunnale che penetrava di taglio dai vetri delle finestre. “Da un po’ di tempo provo un senso di colpa che prima non avevo nei confronti di Arturo. Non so, non è come una pena, piuttosto mi sento quasi invidiosa della sua serenità, certe volte vorrei dirgli tutto solo per vedere quale reazione potrebbe avere…”, disse la donna.
L’uomo si girò sopra un fianco, si accese con lentezza una delle sue sigarette, poi disse: “Prendiamoci un po’ di respiro: non salire da me ogni volta che ti è possibile. Forse ci stiamo vedendo un po’ troppo spesso…”.  Rimasero in silenzio per circa un minuto, poi si sentirono degli schiamazzi provenienti dalla piazza sotto alle finestre di casa.
“Ti ricordi quando ci incontravamo lungo le scale, ed io, formalissima, ti dicevo soltanto: “buonasera”, mentre continuavo a guardare per terra?”. “Certo”, disse lui, “erano i primi tempi che ero venuto ad abitare in questa mansarda, poco più di tre anni fa, e a volte mi chiedevo che gente abitasse in tutto il palazzo, silenziosi, bravi, pieni di assoluto rispetto; mi trovavo quasi a disagio, io che a volte lavoro ai miei quadri di notte facendo rumore, e poi sono assolutamente disordinato, conduco una vita piena di sregolatezze, ho i capelli spesso in disordine, e sopra le mani mi rimangono sempre i colori che adopro”. “Però ti piacque quando ti chiesi se potevo venire a vedere i dipinti!”. “Certo. Vedi, fare le mostre in galleria è una cosa diversa, la gente che viene a guardare i tuoi quadri sa già cosa cerca. Tu invece eri fuori dal coro, e poi ti avevo osservata, avevi i capelli raccolti in una maniera curiosa, un’espressione piena di tanta attenzione, insomma, eri decisamente la donna più interessante che avessi mai visto”. “Lo eri anche tu, interessante, come lo sei anche adesso…”, disse la donna.
Poi rimasero nuovamente in silenzio, la piazza rimandava lì in alto diversi rumori confusi, nella stanza persisteva un certo disordine, e la luce dalle finestre lasciava lentamente il calore che aveva avuto fino a pochi minuti più indietro, per assumere tonalità meno decise, più indefinite. L’uomo sembrò interessarsi a qualcosa in un angolo illuminato dalla luce diretta del sole, poi disse: “Senti, vorrei che smettessimo di vederci del tutto, avanti che il nostro vederci diventasse solo una normale abitudine…”. Lei restò immobile nella sua posizione, forse per qualche minuto, poi disse: “Certo; hai capito benissimo cosa intendevo. Mi sento stretta dentro a una morsa. Vorrei salire i due piani di scale e venire da te ogni volta che posso, ma quei gradini mi stanno pesando sempre di più. Sto bene qui, assieme a te, ma quel senso di peccaminoso e intrigante che c’era agli inizi si è perso, adesso rimane solo quel comportarsi con attenzione, in modo che i vicini non si rendano conto di noi…”. “E poi c’è tuo marito…”, disse lui. “Si, è vero, stiamo assieme da così tanti anni che certe volte mi pare impossibile che lui non legga la verità dentro di me…”. Poi lui si sedette sul letto e spense nel posacenere la sua sigaretta finita, infilò le pantofole e andò nella stanza vicina a riguardare un disegno che aveva fatto al mattino. Lei si vestì, rimise le scarpe, poi lo raggiunse. “Ciao”, gli disse con voce soffusa, toccandogli leggermente le spalle, “ma forse dovrei solo dirti: buonasera…”. 


            Bruno Magnolfi

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