Ero
andato in campagna, a stendermi sopra un prato sotto al sole di quella
primavera avanzata, per starmene un pomeriggio da solo, pensare un po’ alle mie
cose e godermi la bella giornata senza nessuno a cui spiegare cosa stessi
facendo. Guardavo le nuvole, ma mi ero portato anche un libro, e mi sentivo
sereno, a posto col mondo e con la natura, fino a quando un ronzio aveva
attirato il mio sguardo. L’ultraleggero sopra alla mia testa aveva girato con
il motore in lenta ma progressiva decelerazione, e a giudicare dalla lenta
virata che aveva compiuto si poteva tranquillamente pensare che stava cercando
una qualsiasi striscia pianeggiante dove poter atterrare. Era arrivato fino in
fondo ad una fila di alberi, quelli che chiudevano lo spazio di prato dove mi
ero sdraiato, e la sua rotta sembrava sempre più bassa; poi aveva virato di
nuovo puntando decisamente nella zona vicina a dove io mi trovavo, e il motore
adesso scoppiettava come a volersi fermare, anche se il pilota del piccolo
aereo doveva avere le idee molto chiare su ciò che stava cercando di fare. Mi
alzai da dov’ero, e feci una beve corsa per evitare di trovarmi troppo vicino
alla traiettoria di atterraggio, poi osservai l’apparecchio che con le ruote
toccava il terreno. Rimbalzò troppo su un fianco, perse l’assetto e il
controllo, infine toccò malamente di nuovo la terra e il carrello si ruppe,
lasciando che il velivolo strisciasse di muso per un tratto che pareva
infinito. Poi si fermò, senza prendere fuoco né altro, io corsi a vedere cosa
fosse successo, e dall’aereo, prima ancora che fossi arrivato, uscì fuori un
ragazzo dallo sguardo intontito e leggermente ferito alla fronte. Disse che era
la prima volta che volava da solo, aveva sentito il motore che perdeva potenza,
aveva visto quel prato, non aveva avuto modo di pensare nient’altro. Gli dissi
dov’eravamo, più o meno, che avevo la macchina a poca distanza, avrei potuto
portarlo dove voleva, non c’erano assolutamente problemi. Lui disse di sì,
razionalizzò tutto quello che era meglio per lui, poi, mentre ci voltammo verso
l’aereo, si vide una lingua di fuoco che usciva da dentro al motore. Fu un
attimo, ci allontanammo di corsa dello spazio preciso che minimamente serviva
per non avere problemi, e intanto il carburante residuo nel serbatoio scoppiò
con un fragore terribile, distruggendo tutto quanto poteva essere rimasto di
buono. Imprecò, se la prese con la sua proverbiale sfortuna, poi iniziò a
piangere in modo nervoso. Dopo qualche minuto mi chiese di accompagnarlo al
primo paese che incrociavamo, ma quando salì sulla mia macchina tirò fuori un
coltello che aveva sotto la giacca. Mi disse che dovevo dimenticarmi della sua
faccia, dimenticarmi anche di quello che era successo, non dire a nessuno
quello a cui avevo assistito. Dissi che andava bene, non c’erano affatto
problemi per me, poi, quando scese dalla mia auto, ancora prima di arrivare al
paese, disse soltanto che era dentro ad una cosa più grande di lui, doveva
comportarsi così, non poteva spiegarmi. Pensai a lungo alle parole con cui ci
eravamo lasciati, per parecchi giorni a seguire, e mentalmente costruii diversi
scenari possibili, ma alla fine mi parve che forse aveva avuto ragione: era impossibile
spiegare o capire certi fatti complessi, in certi casi era meglio così,
dimenticare del tutto le cose, come non fossero neanche esistite.
Bruno
Magnolfi
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