Nel
paese non ero tenuto molto di conto, di questo ero certo. Giravo per strada,
percorrevo tutto il corso centrale più di una volta, avanti e indietro,
salutavo diverse persone perché tanta gente sapeva chi ero e conosceva anche la
mia famiglia, anche se sapevo benissimo che nessuno parlava bene di me. Quelli
che erano stati i miei compagni di scuola e di giochi, tanti anni prima, erano
tutti sposati, qualcuno era andato via dal paese, e avevano figli, un lavoro,
una vita completa. Per me non era così. Ero rimasto in famiglia, con i miei
genitori, non avevo voluto studiare, non mi ero mai interessato di niente,
avevo solo continuato fin da ragazzo a dare una mano a mio padre, nella sua
ditta, ma senza che questo fosse il mio vero mestiere, solo così, tanto per
riempire un po’ il tempo e non sentirmi di peso. Gli anni passavano, non me ne
ero neanche reso conto, e non avevo combinato niente di buono. Agli inizi mi
facevo grande dell’attività di mio padre, quel magazzino con il suo ingrosso di
frutta, poi anche la sua attività si era ridotta, e dei dieci magazzinieri che
aveva quando ancora ero piccolo, adesso erano rimasti solo quattro, e non c’era
neppure lavoro per tutti quanti i mesi dell’anno. La gente in paese era cattiva, ti giudicava
male in un attimo, e poi, per cambiare opinione, non bastava una vita. Certe
volte qualcuno mi aveva preso un po’ in giro, in modo bonario, lanciandomi
qualche battuta di spirito, ma in fondo a me non importava, ero cosciente di
quello che ero, e che nessuna ragazza aveva mai stretto un rapporto con me. A
volte mio padre diceva, anche davanti ai suoi operai: “Hai già quarant’anni, e
non sai neanche quante cassette di frutta possono stare in un camion!”. Io lo
lasciavo dire, tanto non cambiava un bel niente, salivo sopra il carrello e
smistavo i pancali con sopra la frutta, tanto per fare qualcosa e non dar retta
a nessuno. Mio padre qualche volta aveva anche detto che un giorno avrei dovuto
occuparmi di tutto, probabilmente quando lui non sarebbe stato più in grado di
farlo: “Bisogna trattare coi produttori, rinnovare i contratti con chi ti
acquista la frutta, organizzare gli orari dei camion, lo scarico e il carico, è
tutto come un grande orologio, se qualcosa si inceppa non funziona più
niente…”. A volte era nervoso ed io mi tenevo alla larga, andavo nel corso a
camminare su e giù, lentamente, con le mani sfondate dentro alle tasche e la
testa leggera, senza pensieri. Nella cartoleria, proprio in fondo alla strada,
c’era una donna, una vedova, e a volte mi lanciava un sorriso. Poi andai a
comprare qualcosa che serviva giù al magazzino. Mi chiese se andavo da lei,
quella sera, ed io dissi di si. Passò un mese e ormai andavo da lei quasi tutte
le sere, però non mi sentivo a mio agio, mi pareva di essere sporco, e
immaginavo che in paese ormai tutti lo sapessero della nostra faccenda, così lo
dissi alla vedova, e lei si arrabbiò, disse che ero un cretino, che nella vita
non avevo combinato un bel niente, che vivevo alle spalle di mio padre, e altre
cattiverie del genere. Mi venne da piangere a vederla così: presi la porta ed
uscii, disperato. Corsi senza respiro fino in fondo al paese, poi presi una
strada e camminai per tutta la notte, senza fermarmi. Non sapevo dov’ero, non
mi riguardava, mi fermai e dormii sotto a un albero. Pensavo di buttarmi da un
ponte, o qualcosa del genere, ma non lo feci. Tornai a casa il giorno seguente,
e dissi che volevo provare a sostituire mio padre, lui fu felice e si mise a
insegnarmi tutto ciò che sapeva. Dopo due mesi gli prese un infarto che lo
inchiodò in casa per un sacco di tempo, ma il magazzino continuò ad andare
avanti, ed io mi sentii bene, importante.
Bruno
Magnolfi
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