Il motore
del camion mugghiava nello sforzo di trainare quei dieci metri cubi di
calcestruzzo bello pronto e impastato dentro la betoniera che continuava a
girare e a lavorarlo al suo interno, mentre mi avvicinavo al posto di scarico.
Chissà stavolta a cosa servivano quei quasi duecento quintali di ghiaia e
cemento: a fare un muro, una fondazione, il pilastro di un ponte, una
travatura? Il mio lavoro non prevedeva curiosità di quel genere, a volte il
materiale era più chiaro e a volte più scuro, ma a me non spettava preoccuparmi
del suo colore. Col mio camion caricavo all’impianto quanto era stato ordinato,
mi scrivevo l’indirizzo di destinazione e via, a scaricare l’impasto dentro al
cantiere, dove mi diceva il geometra, più sodo, più fluido, lentamente, tutto
come voleva; infine lavavo la mia betoniera da tutti i residui, ed ero pronto
per un nuovo viaggio e un’altra consegna. Eppure certe volte mi pareva
impossibile. Impossibile che ogni giorno ci fosse bisogno di tutto quel
calcestruzzo, pronto a infilarsi dentro alle casseformi, a scorrere lungo i
pannelli di legno, ad avvolgere le strutture d’acciaio preparate. Incredibile
quanto cemento veniva colato, senza battute d’arresto, senza soste quella
cementificazione continua. Facevo sei, sette viaggi ogni giorno così, e avevo
trenta colleghi che lavoravano con un camion identico al mio, tutti autisti e
padroni di quel proprio mezzo. In fondo era soltanto un mestiere, a volte
pensavo, ma tutto quel materiale che intanto induriva e prendeva la forma mi
lasciava perplesso. All’impianto, quando facevo la fila per caricare, era
quello l’unico momento in cui tra colleghi, tutti ragazzoni della mia età, si
poteva scambiare qualche parola, giusto per affrontare argomenti triti, buoni
per dirsi le battute di sempre, ma spesso cercavo di evitare che qualcuno mi
parlasse in maniera diretta, limitandomi ad ascoltare quello che dicevano gli
altri. Parlare con loro di problemi relativi alla quantità di cemento che
veniva prodotta, alla sabbia e alla ghiaia utilizzata, o cose del genere,
neanche a pensarci: avevo provato qualche volta a capire cosa sapessero, a voce
alta avevo detto ciò che pensavo, ma ognuno svolge il proprio lavoro, dicevano,
e noi più si gira più si guadagna, non è il caso di porsi tante domande. Ma
negli ultimi tempi era arrivata una nuova ragazza a lavorare dentro l’ufficio;
dicevano fosse la figlia di uno dei soci. Si vedeva di rado sopra al piazzale,
in mezzo alla polvere bianca di inerti e cemento, e a me pareva impossibile che
una ragazza del genere lavorasse là dentro. La osservavo, mentre aspettavo il
mio turno, oltre il vetro di quell’ufficio, e a volte anche lei mi guardava.
Poi un giorno ero andato dentro per prendere il documento di trasporto e
l’indirizzo relativo a uno scarico, e lei era rimasta sopra al suo tavolo con
gli occhi sui fogli, in quell’attimo in cui ci trovammo da soli. “Ciao, Elena”,
dissi con la voce più naturale che mi fosse possibile, anche se non ci eravamo
mai presentati. Lei alzò lo sguardo, mi osservò solo un istante, poi disse: “Se
solo faccio vedere che ho maggiore simpatia per qualcuno, qui dentro mi
mangiano”, così non dissi più niente, presi i miei fogli ed uscii. Ma qualcosa
era cambiato, e quando qualche giorno più tardi capitò l’occasione ed entrai di
nuovo dentro al suo ufficio, le lasciai scivolare sopra la sua scrivania un
foglietto piegato con su scritto il mio nome e il mio numero di telefono.
Quando mi chiamò, disse soltanto che le dispiaceva, ma quella sarebbe stata la
sua unica telefonata per me. Mi spiegò che era meglio non fare troppe domande,
che ero tenuto sott’occhio per via dei discorsi che a volte avevo affrontato,
che ero ritenuto uno scomodo. “Stai attento”, mi disse, “se sbagli qualcosa
darai l’occasione per non chiamarti mai più a lavorare. Non domandarmi
nient’altro. Devo salutarti. Lasciami perdere: non sono adatta per te…”.
Bruno
Magnolfi
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