lunedì 16 novembre 2009

La scelta.

            

            Sul marciapiede i tacchi delle scarpe scandivano i suoi passi in maniera regolare, non affrettata. Dentro di sé avrebbe anche voluto rallentare ulteriormente il suo moto, addirittura fermarsi, girarsi indietro e andar via, ma non era possibile. Se ci pensava odiava tutto di sé: i suoi modi, le espressioni che usava, persino quei tacchi e quelle scarpe da donna ordinaria, quasi senza caratteristiche riconoscibili. In azienda aveva cercato di comportarsi in diverse maniere, aveva anche provato a dire cose che neanche pensava, ma non erano mai usciti fuori risultati diversi. In fondo, pensava a volte cercando di ritrovare un po’ di fiducia in se stessa, lei era soltanto una segretaria, non poteva far altro se non accondiscendere a tutto quello le veniva chiesto di fare, impersonando il suo ruolo e fingendo sempre di essere professionale e appagata. Eppure sentiva benissimo che quel soffocare la sua personalità giorno per giorno era l’elemento che scatenava al suo interno un malessere generale e indomabile, che si riversava in qualsiasi momento della sua vita privata, soprattutto quando non si trovava al lavoro. Aveva provato a parlarne anche in casa, con le persone nelle quali riponeva  fiducia, con le sue amiche, con il suo fidanzato, ma nessuno di loro era riuscito a chiarirle quale fosse la soluzione migliore. Così aveva affrontato quell’argomento anche con il suo medico, e lui senza scomporsi le aveva consigliato quell’analista. C’era già andata due volte, da quell’analista, ma adesso era ancora più giù di morale: si sentiva sconfitta, sostanzialmente, incapace di decidere da sé della sua vita. Così si sentiva ancora di più davanti ad un bivio, e pur con tutte le paure che riusciva a provare, sapeva dentro di sé che tutto dipendeva da lei, dalle sue scelte. Quel marciapiede, quando ogni giorno lo percorreva prima di entrare in azienda, era l’elemento che più di ogni altro le faceva assaporare il passaggio da uno stato a quell’altro: in quelle poche decine di passi che divideva il parcheggio delle auto dall’ingresso in azienda, si giocavano in lei tutti quegli elementi importanti di cui riusciva a soffrire. Era inutile, poteva parlarne con quante persone voleva, non poteva essere diversa là dentro, il meccanismo che le era richiesto era proprio quello di abbandonarsi a ciò che il suo ruolo dettava, era così, doveva farsene per forza una ragione precisa. Ormai le veniva naturale persino contarli quei passi, tanto il varcare quella porta di vetro dietro alla quale si svolgeva il suo lavoro, la faceva star male. Sentiva il frusciare leggero della porta automatica che si apriva appena arrivava, immaginava i sorrisi finti e i saluti con i quali si rapportava ai colleghi e agli impiegati che lavoravano lì, vedeva la sua scrivania con computer e telefono alla quale restava incollata per mandare avanti le cose, pronta a qualsiasi richiamo dell’ingegnere o dei dirigenti. Con questi pensieri, in fondo a quel marciapiede, era infine arrivata; però si era fermata un momento, come percorsa da un nuovo pensiero, aveva osservato la porta di vetro mentre si apriva, ancora restando ferma dov’era, aveva lasciato che qualcuno da dentro osservasse il suo viso, il vestito, le sue scarpe da donna ordinaria, e infine, senza cambiare espressione, si era girata, lentamente, aveva lasciato che la porta si chiudesse di nuovo dietro di sé, e aveva ripercorso al contrario tutto quel marciapiede, per andarsene via.


            Bruno Magnolfi

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