Sul
marciapiede i tacchi delle scarpe scandivano i suoi passi in maniera regolare,
non affrettata. Dentro di sé avrebbe anche voluto rallentare ulteriormente il
suo moto, addirittura fermarsi, girarsi indietro e andar via, ma non era
possibile. Se ci pensava odiava tutto di sé: i suoi modi, le espressioni che
usava, persino quei tacchi e quelle scarpe da donna ordinaria, quasi senza
caratteristiche riconoscibili. In azienda aveva cercato di comportarsi in diverse
maniere, aveva anche provato a dire cose che neanche pensava, ma non erano mai
usciti fuori risultati diversi. In fondo, pensava a volte cercando di ritrovare
un po’ di fiducia in se stessa, lei era soltanto una segretaria, non poteva far
altro se non accondiscendere a tutto quello le veniva chiesto di fare,
impersonando il suo ruolo e fingendo sempre di essere professionale e appagata.
Eppure sentiva benissimo che quel soffocare la sua personalità giorno per
giorno era l’elemento che scatenava al suo interno un malessere generale e
indomabile, che si riversava in qualsiasi momento della sua vita privata, soprattutto
quando non si trovava al lavoro. Aveva provato a parlarne anche in casa, con le
persone nelle quali riponeva fiducia,
con le sue amiche, con il suo fidanzato, ma nessuno di loro era riuscito a
chiarirle quale fosse la soluzione migliore. Così aveva affrontato
quell’argomento anche con il suo medico, e lui senza scomporsi le aveva
consigliato quell’analista. C’era già andata due volte, da quell’analista, ma adesso
era ancora più giù di morale: si sentiva sconfitta, sostanzialmente, incapace
di decidere da sé della sua vita. Così si sentiva ancora di più davanti ad un
bivio, e pur con tutte le paure che riusciva a provare, sapeva dentro di sé che
tutto dipendeva da lei, dalle sue scelte. Quel marciapiede, quando ogni giorno lo
percorreva prima di entrare in azienda, era l’elemento che più di ogni altro le
faceva assaporare il passaggio da uno stato a quell’altro: in quelle poche
decine di passi che divideva il parcheggio delle auto dall’ingresso in azienda,
si giocavano in lei tutti quegli elementi importanti di cui riusciva a
soffrire. Era inutile, poteva parlarne con quante persone voleva, non poteva
essere diversa là dentro, il meccanismo che le era richiesto era proprio quello
di abbandonarsi a ciò che il suo ruolo dettava, era così, doveva farsene per
forza una ragione precisa. Ormai le veniva naturale persino contarli quei
passi, tanto il varcare quella porta di vetro dietro alla quale si svolgeva il
suo lavoro, la faceva star male. Sentiva il frusciare leggero della porta
automatica che si apriva appena arrivava, immaginava i sorrisi finti e i saluti
con i quali si rapportava ai colleghi e agli impiegati che lavoravano lì,
vedeva la sua scrivania con computer e telefono alla quale restava incollata
per mandare avanti le cose, pronta a qualsiasi richiamo dell’ingegnere o dei
dirigenti. Con questi pensieri, in fondo a quel marciapiede, era infine
arrivata; però si era fermata un momento, come percorsa da un nuovo pensiero, aveva
osservato la porta di vetro mentre si apriva, ancora restando ferma dov’era,
aveva lasciato che qualcuno da dentro osservasse il suo viso, il vestito, le
sue scarpe da donna ordinaria, e infine, senza cambiare espressione, si era
girata, lentamente, aveva lasciato che la porta si chiudesse di nuovo dietro di
sé, e aveva ripercorso al contrario tutto quel marciapiede, per andarsene via.
Bruno
Magnolfi
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