Con calma
aveva tirato fuori le chiavi dalla sua tasca, si era guardato vagamente attorno
come non fosse del tutto convinto che quello era veramente il palazzo dove
abitava, aveva cercato la toppa del portone di vetro e metallo che dava direttamente
sul marciapiede, aveva lasciato scattare il meccanismo elettrico della
serratura, e infine era entrato, scivolando silenzioso fin dentro quell’andito
ampio con l’ascensore e le scale sul fondo. Alberto si sentiva fuori di posto
anche adesso, anche nel compiere i gesti di sempre. Marcella era andata, dopo
tutti quegli anni in cui avevano diviso ogni cosa, avevano affrontato assieme tutte
le difficoltà di ogni giorno, si erano sostenuti a vicenda; adesso lei aveva
deciso che era tutto alle spalle, che il loro rapporto era finito. E per lui soltanto
rientrare nel suo appartamento e non trovarla lì, come sempre, gli pareva
ancora una cosa impossibile, per questo in quegli ultimi giorni aveva cercato
in tutti i modi di ritardare il rientro. Si era interrogato in tutte le maniere
possibili, Alberto, e quando Marcella aveva detto che era meglio così anche per
lui, aveva fatto cenno di si con la testa, ma non lo pensava davvero. Gli aveva
detto che non riusciva a vedere le cose, che viveva soltanto di superficie, non
riusciva ad approfondirsi sui veri problemi del loro rapporto, quella vita
monotona che non sapeva di niente, se non di grigiore quotidiano e di muffa,
quelle giornate vuote di tutto, interscambiabili, prive oramai di aria nuova.
Per Alberto non era in quel modo, e sarebbe stato disposto ad apportare tutti i
cambiamenti di cui c’era bisogno se solo Marcella avesse voluto provare. Per
lui bastava soltanto la sua presenza per riempire di colore le stanze di casa, ma
era impossibile riuscire a spiegarle cosa vedesse davvero quando guardava il
suo viso, i suoi occhi, ogni sua qualunque espressione. Nell’andito del palazzo
c’era silenzio a quell’ora serale, Alberto aveva pigiato il pulsante luminoso e
aveva sentito il motore elettrico che si avviava. Adesso toccava per la prima
volta con mano il vero grigiore dei giorni. Gli pareva impossibile dover
perseguire le attività quotidiane senza una vera ragione per portarle in
avanti. L’ascensore, con un tuffo leggero, si era fermato e aveva spalancato le
porte scorrevoli, Alberto era entrato e si era sentito sgomento a pigiare quel
pulsante dell’ultimo piano che probabilmente portava ancora l’impronta del dito
della sua Marcella, dell’ultima volta che lo aveva premuto. Poi si era fatto
coraggio, le porte si erano chiuse e lui aveva intrapreso il viaggio in ascesa per
arrivare nel suo appartamento. Qualcuno
gli aveva detto che il tempo rimarginava qualsiasi ferita, e lui aveva sorriso,
con il sorriso distante di chi non vuole che il tempo apporti alcuna modifica,
perché sa che quel vuoto che sente deve rimanere così, nella stessa esatta
maniera. Se chiudeva i suoi occhi sentiva ancora il profumo di lei, dei suoi
capelli, della sua presenza insostituibile. Poi l’ascensore si era fermato, le
porte si erano aperte, e lui ad occhi bassi aveva cercato la chiave del suo
appartamento. Era facile adesso odiare quel pianerottolo, quei gesti meccanici,
quella vita di sempre, quei vicini che nei giorni seguenti gli avrebbero
chiesto qualcosa di lei e della sua solitudine nuova. Ma Alberto si sentiva
forte del suo passato, di tutto il tempo trascorso con lei, non ne avrebbe mai potuto
parlar male, di tutti quegli anni, della loro vita in comune. Si era fermato
solo per un attimo davanti alla porta, giusto per raccogliere assieme tutti i
pensieri, e in quell’istante aveva visto Marcella lì accanto, con le lacrime
agli occhi, con il suo dolce viso di sempre, con i colori del mondo sopra di
sé, come sapeva essere lei, pronta di nuovo a togliere quel telo di grigio da
sopra al suo Alberto, che non aveva creduto davvero che tutto si sarebbe
fermato, e che forse in cuor suo l’aveva aspettata, perché era quella l’unica
cosa che gli era rimasta da fare.
Bruno Magnolfi
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