Il
giardino era grande. Solo lavorando con cura attorno a tutti quei piccoli
alberi, quei cespugli, quelle aiuole di fiori, si capiva che ogni pianta aveva
bisogno di cure appropriate, cosa questa che ad uno sguardo superficiale non
appariva per niente. La signora Torrini mi aveva procurato un grosso libro con
molte spiegazioni sulle essenze vegetali di ogni tipo, ed io avevo iniziato a
studiarlo dentro a quel bar dove regolarmente mi piazzavo in compagnia di una
birra, una volta terminato il lavoro. Lei, in quei miei primi giorni del mio
nuovo impegno di giardiniere, era stata un po’ assieme a me, indossando guanti
spessi di gomma e un buffo grembiule pesante, giusto per spiegarmi qualcosa con
poche dirette parole, e illustrandomi le particolarità del suo giardino e di
altre cose inerenti la mia attività dei giorni a seguire. Poi era sparita, però
mi aveva lasciato la chiave del cancello della sua recinzione, così ero
autonomo, anche se sospettavo che lei mi osservasse dalle finestre di casa. In
fondo, a me non importava per niente, e nelle settimane a seguire ogni tanto
entravo dentro al capanno dove erano riposti gli attrezzi, e là dentro affilavo
le lame da taglio, sistemavo gli utensili che usavo, mi fumavo una sigaretta, e
lasciavo che il suo sguardo curioso vagasse attorno a tutta la casa nella
ricerca del suo giardiniere da tenere sotto controllo. Poi un giorno arrivò
mentre stavo dentro al capanno: mi disse che non poteva farsi vedere troppo con
me, il vicinato ne avrebbe parlato e questo a lei non piaceva. Mi chiese senza
aspettare risposta di raggiungerla in casa passando dal retro quando avessi
terminato il lavoro, ed io le dissi che andava bene, ma senza che lei mi avesse
chiesto un parere. Quel pomeriggio caddi malamente per terra inciampando su un
ramo d’albero che avevo tagliato. Quando mi presentai alla signora Torrini le
dissi che sentivo dolore ad un braccio, e forse era meglio se il giorno
seguente fossi stato a riposo. Lei disse che non c’era problema, poi mi fece
sedere, slacciò la manica della mia camicia e mi fece piegare il gomito in più
posizioni, cercando di capire cosa fosse accaduto. Infine tirò fuori una pomata
da applicare sulla parte che mi procurava dolore, e senza chiedermi niente la spalmò
sul mio braccio. “Si sarà sicuramente chiesto il perché ho cercato proprio lei
per lavorare al giardino”, disse. “Non si deve fare strane illusioni, non sono
in cerca di un uomo. La mia vita va bene com’è. Però tra tutte le persone di
questo paese lei è il più sfuggente, quello che riesce a guardare attraverso le
cose, a restare indifferente di fronte a persone o fatti curiosi, e questo mi
piace”. Le dissi che il primo giorno avevamo deciso di darci del tu, almeno quando
fossimo stati da soli, così si scusò, e fu ancora più diretta: “Soffro di
solitudine, purtroppo”, disse di colpo; “e solo vederti mentre lavori in
giardino mi riempie lo sguardo. E’ una mia debolezza, ma ciò non toglie che io
debba avere un grande rispetto per quello che fai, per la tua pazienza nei miei
confronti, per la capacità che hai dimostrato fino ad adesso, di essere serio, comprensivo,
una persona per bene”. Poi, d’improvviso, come consapevole di aver speso anche
troppe parole con me, si alzò dalla sedia lasciando che io mi avviassi verso la
porta, ma poi, guardandomi a fondo con i suoi occhi duri e sfuggenti, le venne
da esprimermi un breve sorriso, e con un moto che non mi sarei mai aspettato,
mi accarezzò per un momento la mano, e come in un soffio, disse soltanto: “i
nostri anni migliori sono passati, a nulla serve oggi essere falsi…”.
Bruno
Magnolfi
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