sabato 28 maggio 2011

Certe volte, ad un incrocio.

           
            Sono passato davanti ad un semaforo con la mia auto durante un giorno qualsiasi, uno di questi giorni appena trascorsi, che sembrano spesso identici l’uno a quell’altro, ricordo soltanto che non pioveva, anzi, forse c’era addirittura un pallido sole, magari era addirittura una giornata chiara, di quelle che ti fanno sentire a tuo agio, in pace con tutto. Procedevo lentamente, ricordo che non avevo alcuna premura, mi guardavo attorno, come a cercare di riconoscere le strade che percorrevo, i quartieri che stavo attraversando, nella ricerca distratta di chissà mai che cosa. Sopra un marciapiede mi rammento che c’erano delle persone, un gruppo intero, probabilmente, tutte ferme nell’attesa di attraversare la via piuttosto transitata, e così ho intravisto, mescolato agli altri, un uomo come tanti se ne vedono, forse addirittura uno qualsiasi, ed ho immaginato, non so neanche perché, fosse mio padre.
            Giacca grigia leggermente sformata, camicia chiara, forse bianca, nient’altro mi è riuscito di vedere di lui in quel breve attimo in cui sono riuscito appena ad occhieggiare la sua faccia, la sua espressione seria, i lineamenti stanchi, di chi probabilmente ha già compiuto un percorso che nel tempo poco per volta gli ha ristretto qualsiasi possibilità di futuro, lasciandogli niente di differente alla sua vita di anziano, attaccata solo alle abitudini. Il suo viso, a ben guardare, mostrava quasi spavento, forse un assoluto bisogno di rassicurazione, come di un uomo che cerca disperatamente suo figlio in un luogo qualsiasi, per la necessità di sentirsi sorretto, non più da solo in mezzo ad estranei.
            Era proprio solo, probabilmente, ma forse sono stato soltanto io a immaginarmelo così: un uomo anziano che gira insieme a tutti gli altri dentro ad un quartiere, che cerca forse di capire come si stia evolvendo la realtà, cos’è che sta velocemente cambiando, senza quasi che riesca davvero a rendersene conto. Ho pensato a quell’uomo come ad un’anima in pena, un padre che ha smarrito i propri figli, probabilmente, o forse li ha soltanto lasciati andare, via a cercarsi autonomamente un proprio percorso, senza ostacolare niente della loro curiosità, anzi aiutandoli in questo, anche se qualche volta con la morte nel cuore.
            Ho provato a parlargli mentalmente, mentre continuavo a  guidare la mia auto, ho provato a chiedergli da che cosa adesso fosse incuriosito, cosa potessi mai fare io per lui, per rendergli un po’ di serenità smarrita, per togliere per un attimo dalla sua faccia quelle rughe di tristezza che parevano indelebili, profonde; ma lui non ha risposto, non mi ha neanche guardato, non per indifferenza, soltanto per una lontananza che a me non arrivava in quel momento, o che mi pareva assolutamente superabile, come un piccolo stupido ostacolo tra tanti che affrontiamo ogni momento.
            Con la vettura sono arrivato alla prima rotatoria, ho compiuto un giro completo attorno ad una aiuola cittadina molto ben tenuta, e sono tornato indietro, fino al semaforo dove mio padre doveva essere ancora, in attesa di qualcosa, mentre cercava di attraversare la strada come gli altri, come tutti, sicuro di vederlo, di potermi fermare forse, parlargli davvero, forse abbracciarlo, dirgli quello che ho sempre pensato, che ho spesso avuto voglia di spiegare a lui, senza mai riuscire a farlo, ma non c’era più, era ormai sparito, risucchiato dalla vita dei semafori, delle strade, dei passaggi pedonali. Così ho proseguito a guidare la mia auto, senza pensare alcunché, forse perché non potevo proprio far altro.


            Bruno Magnolfi   

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