venerdì 16 settembre 2011

Il meccanismo di un gesto.

            

            Avevo sceso le scale quasi di corsa, la fretta di ogni giorno inviava brevi segnali alle gambe e poi giù fino ai piedi; avevo quasi aperto del tutto il pesante portone condominiale, ero riuscito quasi a sentire sfiorarmi la faccia dall’aria più fresca che correva lungo la strada; ero fuori, praticamente, già proiettato verso tutto ciò a cui dovevo far fronte, come qualsiasi altra giornata, risucchiato magicamente dalle attività quotidiane. Sarei dovuto passare di banca a ritirare dei soldi prima di andare al lavoro, non ci voleva molto, l’agenzia rimaneva lungo la strada.
            Eppure, al momento di mettere la mano sulla maniglia, mi ero fermato, ma senza sapere il perché, quasi che un ripensamento importante fosse passato all’improvviso nella mia mente. Fermo, sopra la soglia che immetteva sul marciapiede, mi sentivo come paralizzato da qualcosa che non riuscivo in nessuna maniera a rendere decifrabile. Stavo pensando, ecco, forse questo si potrebbe ipotizzare di tutto quello che in un attimo solo mi stava inchiodando in quella posizione precisa, a metà tra l’interno e l’esterno, a cavallo di qualcosa che pareva più importante di qualsiasi attività.
            Riflettevo semplicemente sui gesti che avrei dovuto compiere per raggiungere la fermata dell’autobus, poi attendere che transitasse, salirvi sopra, timbrare il biglietto, e così via. Mi pareva del tutto impossibile che le cose potessero procedere in quella maniera come erano previste: mi sembrava che tutta la realtà si fosse d’improvviso ingarbugliata, non ricordavo di preciso neppure dove fosse la fermata dei mezzi pubblici, e poi mi appariva complicatissimo riuscire a salire sull’autobus, trovare in qualche tasca della giacca il biglietto, timbrarlo, e tutte le altre cose necessarie a rendere di me una persona normale. Il decorso dei fatti che avevo di fronte era slegato, ogni piccola operazione era un rebus.
            Rimasi fermo nell’attesa che i miei pensieri riprendessero il loro corso più naturale, ma tutto, proprio mentre cercavo di  riflettere su quanto andava accadendo, nella mia mente si faceva più oscuro, non proprio come se non avessi memoria di ciò che dovevo affrontare, bensì come se tutte le azioni da compiere si fossero rimescolate tra loro dentro di me, apparendo completamente indecifrabili. Pensai di tornarmene indietro e di rientrare dentro al mio appartamento, mettermi a letto, chiamare subito il medico, ma anche questa mi parve subito una cosa estremamente complicata, quasi che i concetti di scala, di porta, di corrimano, di chiavi, avessero invertito le proprie valenze, risultando imbrogliati tra loro. Restavo sulla soglia del portone condominiale, impossibilitato a fare qualsiasi altra cosa, e forse qualcuno dalla strada mi aveva anche intravisto, immaginavo, magari aveva pensato qualcosa di strano su di me, ma io non potevo far niente, mi sentivo del tutto inabile a qualsiasi movimento.
            Pensai di chiedere aiuto, ma era difficile, probabilmente non sarei neppure riuscito ad articolare correttamente delle parole, mi sentivo disperato, non sapevo più assolutamente che fare. Sentii alle mie spalle dei rumori, qualcuno probabilmente stava scendendo le scale dietro di me, sicuramente mi aveva già visto, da dietro magari mi aveva lanciato anche un saluto, ed io ad un tratto, quando ormai era vicino, lo riconoscevo: era l’inquilino del quarto piano, però non riuscivo a dirgli niente in risposta, restavo lì fermo, immobile, proprio come avevo sospettato accadesse, e lui con un gesto ecco che allargava frettolosamente il portone per permettere il passaggio anche della sua persona, poi con rapidità prendeva subito il marciapiede alla sua destra, chissà in direzione di dove, e in fretta, così come era arrivato, scompariva nel niente.


            Bruno Magnolfi

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