Il
loro solito percorso prevedeva il passaggio vicino ad una casa, una vecchia
abitazione di campagna ormai in disuso, dove da chissà quanti anni non abitava più
nessuno, ma che in qualche modo, almeno a giudicare dal di fuori, conservava il
fascino di una costruzione ancora viva, seriosa, quasi autoritaria nel dominare
gli spazi e il verde attorno. Non c’era niente di particolare nei pressi di
tutto quello spiazzo, se non quel viottolo serpeggiante che girava poco lontano
dalla casa fino ad arrivare, un chilometro più avanti, a costeggiare un piccolo
fiume insieme agli alberi e ai cespugli spontanei, pieni di vento di verde e di
grandi foglie ombrose.
I
ragazzi, dopo la scuola, certe volte trascorrevano lì un’ora o due parlando
sottovoce, seduti nel fresco e nella calma, cercando con lo sguardo qualche
pesce guizzante tra le pietre e a tirare sulla superficie dell’acqua qualche
sasso, per poi tornare indietro, verso il paese, ripassando lentamente davanti
a quella casa con le imposte sempre sprangate, immaginandosi gli interni:
l’acquaio di granito, i pavimenti di mattoni, il camino grande con le panche ai
lati, e forse nell’aria un odore di fumo ancora forte. Tornavano verso le loro
case senza dirsi niente, quasi in silenzio, ma come conservando un sottinteso
che non riuscivano a spiegarsi.
Quando
decisero, in un giorno come gli altri, tutti e quattro quanti erano, di
sfondare la porta e di entrare dentro a quella casa, era come se le parole per
l’accordo fossero la normale prosecuzione dei loro pensieri di sempre, come fosse
in fondo una cosa già decisa, ormai quasi naturale. Lo fecero cercando di darsi
coraggio l’uno all’altro, e forse non ne avevano davvero neanche bisogno, ma andarono
avanti senza alcun ripensamento, con le torce che si erano portati dietro per
scrutare con minuzia ogni particolare, e con gli occhi aperti, di chi sa che ci
sarà solo una volta per rendersi conto delle cose, aspettando il tramonto, quando
forse certi gesti, chissà perché, diventano possibili.
Nessuno
di loro rimase all’esterno, dovevano tutti essere coinvolti ad armi pari in
quell’impresa, e si ritrovarono là dentro, in quelle stanze completamente
vuote, senza neppure sapere bene cosa fare.
Girarono con circospezione da ogni parte, salirono al piano superiore
lasciando chiusi gli scuri quasi per paura di cambiare l’assetto ormai
assegnato a quella casa, poi, parlando tra loro sottovoce, dissero che non
c’era niente, anche se non ne erano proprio convinti, ma allora tutti insieme
decisero di andarsene. Fu in quel momento che notarono qualcosa, un piccolo
quadro rimasto appeso, unico oggetto, su una parete d’angolo lungo il
corridoio. Fecero luce con circospezione, si avvicinarono quanto era possibile,
ma il vetro fece specchio e li confuse, poi infine videro l’immagine.
Pareva
quasi una fotografia, ma era un disegno sbiadito fatto con una matita: dei
ragazzi che si guardavano tra loro sotto a un albero, come se attendessero
qualcosa, quasi che chi aveva voluto disegnarli, li avesse sorpresi in pose
strane, con espressioni insolite e curiose. Avrebbero potuto essere addirittura
loro stessi, pensarono le loro menti sveglie: trovarono addirittura delle
somiglianze, e se si guardava bene, sullo sfondo del disegno, c’era anche una
casa che poteva essere benissimo quella dove adesso si trovavano, e di tutta quella
riflessione provarono paura. Uno di loro disse che voleva andarsene, gli altri
annuirono, così in un attimo si ritrovarono sopra lo spiazzo esterno con una
gran voglia di tornarsene in paese e alle strade conosciute. Non dissero mai niente
a nessuno di tutta quella storia, e soprattutto di quel quadro, ma non
dimenticarono mai niente di quello strano pomeriggio, e forse dentro quel quadro
sentirono di entrarci veramente, anche se non subito: forse ci si ritrovarono con
calma, quasi per un gioco della mente, un giorno o quello seguente, un anno
oppure un altro, poco per volta, senza alcun forzatura; prima o dopo, come una
conseguenza naturale, praticamente inevitabile.
Bruno
Magnolfi
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