Aveva
sistemato la sua auto nel parcheggio antistante il palazzo dove lavorava da
quasi trent’anni, aveva preso l’ascensore da solo, dopo avere strisciato il suo
badge, e infine era entrato nella sua stanza, che divideva con altri due
impiegati con i quali scambiava in genere poche parole, nonostante la
condivisione di quei pochi metri di spazio. Al signor Giorgio piaceva arrivare
in ufficio per tempo, quasi sempre prima degli altri colleghi, e giunto davanti
alla sua scrivania compiere tutti quei gesti quasi automatici che mettevano in
moto la sua nuova giornata lavorativa. Mentre il computer iniziava a far ronzare
la ventola di raffreddamento lui sistemava il telefono, riordinava le carte
rimaste sul piano della sua scrivania dal giorno precedente, apriva con calma i
cassetti per assicurarsi che tutto fosse al suo posto, quasi come dar seguito a
dei piccoli riti di iniziazione, sentirsi a suo agio, perfettamente calato
nella sua parte.
Ma quella mattina qualcosa
strideva terribilmente nella sua testa, al signor Giorgio pareva che niente
fosse davvero al suo posto, e che quella stanza si fosse fatta più piccola,
opprimente, addirittura priva di aria. Si era alzato dalla sua sedia e si era
avvicinato alla finestra: lungo la strada c’era il solito traffico, qualche
casa poco distante sbandierava i panni stesi ad asciugare sopra dei fili lungo
i balconi, qualche passante sul marciapiede camminava con la massima attenzione
ai propri passi. Niente di diverso dal solito, questo era il punto, così come niente
sembrava che potesse veramente cambiare le cose.
Si allontanò dalla finestra, il
signor Giorgio, ma invece di tornare a sedersi uscì lentamente sul corridoio,
osservò gli altri impiegati che stavano giungendo al loro posto di lavoro, poi
entrò dentro al bagno per uomini, poco distante. Osservò le sue mani grigie in
contrasto con il bianco del lavandino, si specchiò per un attimo, poi decise
che aveva bisogno di andarsene via, almeno quel giorno, lontano da tutte quelle
solite cose. Il colore rosa del sapone lavamani attirò la sua attenzione, ne
prese una goccia col dito e ne assaggiò con la bocca il sapore aspro e
sgradevole. Poi inumidì la carta per asciugarsi e l’appiccicò sopra lo
specchio, fino ad eliminare dalla superficie di vetro qualsiasi immagine
riflessa.
Si slacciò la cintura di pelle
alla vita quasi con un certo sollievo, si sbottonò quanto poteva lasciando che
i calzoni gli calassero fino alle caviglie, poi li tolse del tutto sfilando via
anche le scarpe. Quando aprì la porta per tornarsene nel corridoio, solo allora
si accorse di essere quasi nudo, ma non gli parve affatto una cosa terribile. I
suoi colleghi si passarono la voce in un attimo, e alla fine erano tutti lì,
chi ridendo, chi cercando di dirgli qualcosa, ma il signor Giorgio sembrava non
dare importanza a nessuno di loro. Nemmeno il capufficio cercò di fermarlo, pur
arrivandogli vicino: forse per imbarazzo, forse perché gli pareva quasi impossibile
che accadesse una cosa del genere, e probabilmente riteneva che niente potesse
fermare davvero un comportamento così assurdo. Si limitò ad osservare con un
certo distacco i gesti di quel bravo impiegato sempre ligio al proprio dovere, mentre
ignorando chiunque cercava di rientrare nella sua stanza, senza cercare neppure
una spiegazione qualsiasi, anzi, comportandosi come fosse quello il
comportamento più normale del mondo.
Il certificato medico nei giorni
seguenti riportava la dicitura: esaurimento nervoso, e in capo ad un mese il
signor Giorgio tornò al suo lavoro, quasi come niente fosse successo. Non ci fu
un vero seguito a quanto era accaduto tra quegli uffici, e le cose ripresero
velocemente il loro normale andamento, anche se a qualcuno ogni tanto veniva
ancora da ridere incrociandolo nel corridoio, ma era giusto per fare qualcosa, forse
semplicemente per rompere la noia che opprimeva quel luogo.
Bruno Magnolfi
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