Sul
retro della mia casa c’è un’auto senza le ruote e un piccolo orto recintato in
maniera precaria subito prima di un appezzamento di terra abbandonato, pieno di
erbacce e di rovi. Fuggo là dietro, ogni volta che mio padre viene da me per
picchiarmi. In genere, di ciò che sta per succedere, me ne accorgo già molto
prima che tutto precipiti, anche se in genere non ne comprendo mai il vero
motivo: mi basta vedergli lo sguardo, la fronte corrugata, il sopracciglio che
si alza in maniera nervosa. Mia madre non fa quasi niente per tenermi distante
da lui, ma ho visto qualche volta che ci sono le spinte e gli schiaffi anche
per lei se si mette di mezzo, così da qualche tempo sto molto più accorto e
cerco di evitare qualsiasi problema ulteriore: rasento con calma i mobili della
cucina e infilo appena possibile la porta sul retro della nostra casa di legno,
andando velocemente a nascondermi in mezzo ai cespugli.
Lontano
da dove mi piazzo, oltre una fila distante alberi, si vedono decollare gli
aerei nella leggera foschia che in genere aleggia laggiù. Non invidio nessuno dei
passeggeri che immagino sopra, soltanto mi piace osservare quella lentezza
remota con cui quei missili bianchi si avvitano in cielo durante quella curva
maestosa. Certe volte, quando più tardi mia mamma mi chiama, io rientro in
casa, svogliatamente, e spesso l’abbraccio, come se una solidarietà silenziosa
si ponesse ad un tratto tra noi, quando lui si è sdraiato sul letto o se n’è
andato fuori da casa. In dei casi vorrei anche parlarle degli aeroplani, di
come li vedo nella loro larga parabola mentre salgono in aria, ma credo che non
riuscirei ad usare le parole più adatte, finendo per rovinare quello che davvero
vorrei farle capire.
Così
in genere rimango là fermo, in silenzio, seduto al tavolo della cucina a
mangiare da solo con gli occhi nel piatto, mentre lei in piedi mi guarda senza
dirmi alcuna parola, forse perché non ne ha più di parole, immagino, ma
soltanto deboli pensieri che non riescono più a librarsi nell’aria. Forse non
importa neppure, penso, forse avrei voglia soltanto di sapere che cosa guarda
quando si rende conto di non sapere neanche verso dove spostarsi, che probabilmente
non ha quasi più niente da seguire con gli occhi. Infine aspetto ancora che mi
dica qualcosa, che si smuova da quel torpore in cui in certi casi sembra
cadere, e continuo ad oscillare tra la rabbia interna che generalmente mi
prende, e quella pena costante che sembra non abbandonare neppure per poco la nostra
casa di legno.
Poi
lei a volte viene da me, è come se mi sorridesse, anche se non lo fa; mi
accorgo che avrebbe voglia di piangere, sa che oramai sono cresciuto, che sono
già grande, ma resta lì, senza far niente, probabilmente sa che non può lasciarsi
andare ad una cosa del genere. Allora cerco di interrompere quella sospensione
di tempo che mi stringe come una morsa: sai mamma, vorrei dirle tutto di un
fiato; dietro a quegli alberi, laggiù nella foschia, ci sono gli aeroplani che
decollano. Io vado lì soltanto per seguire la loro curva ascendente nell’aria,
soltanto per quello; e sono contento quando ce n’è uno da guardare nel cielo al
tramonto, e non so per quale motivo, ma mi pare sempre la cosa più bella e più
importante che io abbia mai visto.
Bruno
Magnolfi
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