Tutto quanto è mosso
dall’angoscia. Tutti sono pronti a muovere i propri pensieri e le proprie
capacità quando la paura li prende, il terrore senza spiegazione avanza.
Osservo la punta della scarpa. Sollevando la parte della gamba oltre il
ginocchio la porto all’altezza giusta, in maniera che si posizioni sulla retta
che collega il mio occhio destro alla presa di corrente elettrica sul muro,
proprio davanti a me.
Sono da solo in
questa saletta, l’avvocato non è ancora arrivato, provo una vaga voglia di
prendere ed andarmene, ignorare tutto quello che riguarda questa causa di
divorzio che si frappone in maniera decisa tra me e il futuro, ma resisto,
cerco di distrarmi, di perdere del tempo, di rimanere qui ma di non pensare a
niente.
Non ho alcuna voglia
di parlare ad un estraneo di mia moglie, del passato, del rapporto che ha
legato le nostre vite per tutti questi anni; ma non ho scelta, so che quando
uscirò da questo studio probabilmente mi sentirò diverso, avrò guardato con
razionalità qualcosa che non avrei voluto mai mettere sotto al microscopio.
Eppure le cose si corrompono con una facilità incredibile, e allora resto,
cerco di sentirmi il più possibile disposto anche a questa operazione.
Un dolore sottile
nello stomaco inizia lentamente a farsi strada, la punta della scarpa non
riesce a stare più di tanto sulla retta, la mia posizione deve ritornare
naturale, seduto su questa poltroncina, senza possibilità di assumere
differenti posizioni. Cerco di pensare a ciò che devo dire all’avvocato, ma lo
stomaco si stringe ulteriormente, non riesco neppure più a rendermi conto che
cosa io stia veramente cercando di salvare.
Vorrei aprire la finestra, gridare aiuto nella strada,
quasi un incendio nella stanza minacciasse la mia incolumità; poi penso che tra
poche decine di anni saremo tutti morti, e questo mi fa sentire meglio, come se
anche gli errori con il tempo divenissero una stupida cosa, fino quasi ad
annullarsi. Credo per me sia una tortura rimanere ancora qui in attesa: sto
male, è ormai evidente, ciò nonostante penso che devo andare avanti, affrontare
ciò che è inevitabile, tirare su la testa, mostrarmi conscio di tutti i
passaggi che dovrò sicuramente sostenere.
L’avvocato non arriva,
ormai io sono in piedi, mi guardo attorno, ho bisogno di sentirmi via da lì, ma
non riesco a decidermi ad andarmene. Poi un pensiero mi passa per la testa:
qualcosa di tutto quanto ciò che andrà legalizzato non mi è chiaro, ho
probabilmente rifiutato fino adesso di affrontarlo, ma c’è un piccolo peduncolo
che ancora lega questo mio matrimonio, ed io non posso disconoscerlo, forse non
è fondamentale, eppure va chiarito, va risolto, deve essere capito.
Torno a sedermi; non
so neppure a che cosa stia pensando, dico tra me con voce bassa. Probabilmente
ho un po’ di febbre, non è certo la giornata migliore per affrontare certe
cose, ma non sono mai stato un pavido, ho sempre cercato di fare ciò che
dovevo, dico a voce già più alta, sarà così anche stavolta.
Poi sento un rumore lungo il corridoio, ci siamo,
penso tra me, non potrò più tirarmi indietro, non ci sarà più altra possibilità
per mettere in discussione tutto quanto: le cose prenderanno presto a correre,
non riuscirò più in nessun caso a ritornarne indietro. E’ il futuro che mi fa
paura, penso all’improvviso: torno a tirare su la gamba, a guardare la punta
del piede che si frappone davanti alla presa di corrente; poi decido: saluterò
l’avvocato senza spiegargli niente, penso, e subito dopo me ne andrò da qui.
Bruno Magnolfi
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