domenica 1 gennaio 2012

La concretezza del pensiero.


           

            Qualcuno, dentro al locale piuttosto affollato, aveva detto a voce abbastanza alta proprio il mio nome, quasi come volesse richiamare su di sé almeno un po’ della mia attenzione. Ero rimasto fermo, invece, in silenzio, proseguendo, come niente fosse stato, a leggere il mio libro mentre prendevo il caffè. Spesso, nel pomeriggio, andavo lì, a quei tavolini, e mi mettevo seduto, le spalle al bancone, e riflettevo su qualche dipinto da portare avanti o da completare. Certo, come pittore non ero così famoso da giustificare qualcosa come quello che era appena successo, ciò nonostante ero praticamente sicuro di aver sentito benissimo dire il mio nome dalla bocca di qualche avventore, anche se non volevo certo voltarmi per vedere chi fosse ad avermi riconosciuto. Ma poi non accadde più niente.
            Attesi almeno dieci minuti, poi richiusi il mio libro, finii quel caffè ormai quasi freddo, e mi voltai lentamente, come per ordinare ancora qualcosa. Ma non riuscii a notare niente di strano o di diverso dal solito, così pagai la mia consumazione al cameriere, ed uscii senza fretta, abbottonando la giacca e calzando il cappello. Anche fuori, la piazza, alle prime luci elettriche che si stavano già accendendo, era bella come al solito, e non sembrava che niente di diverso fosse intervenuto in quei pochi minuti. Guardai da più parti, cercai sulla faccia della solita gente qualcosa di particolare che andavo forse cercando, ma non trovai niente. Eppure, sembrava che qualcosa fosse cambiato, forse addirittura dentro me stesso, come se qualcuno, improvvisamente, mi avesse ricordato chi ero.
            Già, forse era proprio quello il punto fondamentale: spesso mi calavo nella realtà che osservavo in modo talmente incantato da dimenticarmi di qualsiasi altra cosa. Mi piaceva, soprattutto, stare così in mezzo alla gente, e osservare un modo di camminare, o una buffa espressione, e mi interrogavo, spesso, su ciò che magari potesse mai significare. Passeggiai con le mani dentro alle tasche per poche decine di metri, poi tornai indietro, rientrai dentro al caffè, ed andai ad osservare quel tavolo e la sedia dove ero rimasto seduto, come avessi dimenticato dei guanti, lì accanto, o qualcosa del genere. Non c’era niente, naturalmente, anzi, al mio posto si erano seduti un signore ed una signora, ed erano intenti a parlare, tanto da non accorgersi neppure di me.
            Così andai verso il banco, il cameriere mi chiese se volessi ancora qualcosa, ma io, senza neppure lasciarlo finire, gli chiesi senza perifrasi se lui sapesse chi ero. Certo, disse quel cameriere, la vedo spesso qui ai nostri tavoli, è uno dei nostri più assidui clienti, questo è per me ciò che conta, della vita fuori da qui non mi interesso per niente, non sono certo un curioso. Non intendevo dire questo, cercai di dire io, volevo soltanto sapere se lei conoscesse il mio nome, nient’altro. No, signore, mi dispiace, il suo nome io non lo conosco. Così tirai fuori di tasca, velocemente, un mio biglietto da visita, e glielo porsi, cosa di cui, il cameriere, con una certa sorpresa, mi ringraziò immediatamente, e arrotondando un arrivederci ed un sorriso, scandì forte le sillabe del nome che aveva appena letto.
            Tornai verso la strada perplesso, girai per un po’ lungo una via di negozi, e poi rincasai. Forse c’era un errore in tutto quanto, pensavo; forse cercavo intorno a quel mondo che credevo, chissà per quale motivo, di conoscere, qualcosa che di fatto non esisteva. Entrai nel mio studio dove stazionavano sui cavalletti alcune pitture da completare. Erano lì, le vedevo, le potevo toccare: eppure, adesso pensavo, erano così vere, così sostanziali, così importanti, ma forse soltanto per me.

            Bruno Magnolfi

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