Qualcuno, dentro al
locale piuttosto affollato, aveva detto a voce abbastanza alta proprio il mio
nome, quasi come volesse richiamare su di sé almeno un po’ della mia
attenzione. Ero rimasto fermo, invece, in silenzio, proseguendo, come niente
fosse stato, a leggere il mio libro mentre prendevo il caffè. Spesso, nel
pomeriggio, andavo lì, a quei tavolini, e mi mettevo seduto, le spalle al
bancone, e riflettevo su qualche dipinto da portare avanti o da completare.
Certo, come pittore non ero così famoso da giustificare qualcosa come quello
che era appena successo, ciò nonostante ero praticamente sicuro di aver sentito
benissimo dire il mio nome dalla bocca di qualche avventore, anche se non
volevo certo voltarmi per vedere chi fosse ad avermi riconosciuto. Ma poi non
accadde più niente.
Attesi almeno dieci
minuti, poi richiusi il mio libro, finii quel caffè ormai quasi freddo, e mi
voltai lentamente, come per ordinare ancora qualcosa. Ma non riuscii a notare
niente di strano o di diverso dal solito, così pagai la mia consumazione al
cameriere, ed uscii senza fretta, abbottonando la giacca e calzando il
cappello. Anche fuori, la piazza, alle prime luci elettriche che si stavano già
accendendo, era bella come al solito, e non sembrava che niente di diverso
fosse intervenuto in quei pochi minuti. Guardai da più parti, cercai sulla
faccia della solita gente qualcosa di particolare che andavo forse cercando, ma
non trovai niente. Eppure, sembrava che qualcosa fosse cambiato, forse
addirittura dentro me stesso, come se qualcuno, improvvisamente, mi avesse
ricordato chi ero.
Già, forse era
proprio quello il punto fondamentale: spesso mi calavo nella realtà che
osservavo in modo talmente incantato da dimenticarmi di qualsiasi altra cosa.
Mi piaceva, soprattutto, stare così in mezzo alla gente, e osservare un modo di
camminare, o una buffa espressione, e mi interrogavo, spesso, su ciò che magari
potesse mai significare. Passeggiai con le mani dentro alle tasche per poche
decine di metri, poi tornai indietro, rientrai dentro al caffè, ed andai ad
osservare quel tavolo e la sedia dove ero rimasto seduto, come avessi
dimenticato dei guanti, lì accanto, o qualcosa del genere. Non c’era niente,
naturalmente, anzi, al mio posto si erano seduti un signore ed una signora, ed
erano intenti a parlare, tanto da non accorgersi neppure di me.
Così andai verso il
banco, il cameriere mi chiese se volessi ancora qualcosa, ma io, senza neppure
lasciarlo finire, gli chiesi senza perifrasi se lui sapesse chi ero. Certo,
disse quel cameriere, la vedo spesso qui ai nostri tavoli, è uno dei nostri più
assidui clienti, questo è per me ciò che conta, della vita fuori da qui non mi
interesso per niente, non sono certo un curioso. Non intendevo dire questo,
cercai di dire io, volevo soltanto sapere se lei conoscesse il mio nome,
nient’altro. No, signore, mi dispiace, il suo nome io non lo conosco. Così
tirai fuori di tasca, velocemente, un mio biglietto da visita, e glielo porsi,
cosa di cui, il cameriere, con una certa sorpresa, mi ringraziò immediatamente,
e arrotondando un arrivederci ed un sorriso, scandì forte le sillabe del nome che
aveva appena letto.
Tornai verso la
strada perplesso, girai per un po’ lungo una via di negozi, e poi rincasai.
Forse c’era un errore in tutto quanto, pensavo; forse cercavo intorno a quel
mondo che credevo, chissà per quale motivo, di conoscere, qualcosa che di fatto
non esisteva. Entrai nel mio studio dove stazionavano sui cavalletti alcune
pitture da completare. Erano lì, le vedevo, le potevo toccare: eppure, adesso
pensavo, erano così vere, così sostanziali, così importanti, ma forse soltanto
per me.
Bruno Magnolfi
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