Continuavo, a
momenti, a sentire l’infido e leggero dolore dell’ago nel polso, e la presenza
di quel corpo estraneo che mi avevano introdotto dal naso, fino ad ingombrarmi
la gola. Ero tornato a svegliarmi, tempestato da chiazze di colore che vedevo
allargarsi nella mia testa, e la coscienza del tempo rimasto in sospeso, un
vuoto pneumatico, colmo di niente, unita alla sensazione di dover quasi attendere
senza impazienza l’arrivo di una leggera sfumatura ulteriore, di una tonalità cromatica
incomprensibile, almeno al momento.
Non avevo
alcuna voglia di immaginarmi quel letto d’ospedale su cui ero disteso, quegli
strumenti elettronici, che mostravano e facevano sentire ad ogni secondo la
propria presenza fin troppo razionale, capace di organizzare e sancire
qualsiasi variazione, qualunque debole differenza tra un prima ed un dopo.
Lasciavo le palpebre degli occhi abbassate, quasi al limite, nell’offrire alla
debole vista soltanto uno spicchio del campo visivo di fronte, giusto lo
spiraglio sufficiente a captare la luce del giorno sulla parete, un piacevole riverbero
diffuso del sole, che da qualche parte continuava tranquillamente a brillare,
ne ero più che sicuro.
Ero da solo
nella cameretta, ed avevo intravisto un’infermiera, una persona che non
conoscevo, venire a consultare, ogni cinque minuti, il responso di quegli
strumenti, controllare le flebo, gli aghi, i tubicini, tutti quei piccoli
oggetti invasivi che mi tenevano in vita, quella vita così compromessa. Contavo
fra me ogni tanto i respiri che ancora riuscivo a produrre: il meccanismo del
corpo era al limite, ne ero consapevole, la situazione stava sfuggendo di mano,
inutile illudersi, eppure, privo di qualsiasi desiderio, valutavo ancora quei
piccoli indizi, quel surrogato di niente, che forse stupidamente, una volta di
più, cercavo di assaporare .
In mezzo alle
ciglia dei miei occhi, il mondo che riuscivo a vedere era in qualche maniera
già privo di me: in poco tempo al mio posto ci sarebbe stato qualcun altro ad
occupare quel letto; e chissà in quanti sarebbero ancora passati da lì nei mesi
a venire, e forse tutti quanti avremmo avuto gli stessi pensieri, le medesime
sensazioni, come se un’ordinarietà, fino ad allora quasi incomprensibile, fosse
riuscita a plasmarci, proprio per farci provare le medesime cose, instillare
degli identici effetti.
Sentivo l’ago,
vedevo la luce, intuivo la superficie delle lenzuola: lo scopo principale
restava almeno non provare dolore, illudersi che quel passaggio intrapreso
senza gran sofferenza, fosse in questo modo più umano, più caritatevole,
maggiormente accettabile. Andarsene da soli, in un luogo così impersonale,
aveva comunque il suo fascino, questo sarebbe stato un mio normale pensiero, in
condizioni diverse, se non fossi stato impegnato in riflessioni lontane.
All’improvviso
il dolore dell’ago si era mostrato come l’unica cosa che riuscissi a sentire,
della luce filtrante dalla finestra ormai non mi interessava più niente, era
come un grido quello che avrei voluto rendere pubblico, ma le forze non erano
per nulla capaci di permettermi un’attività di quel genere. Restavo immobile,
come unica cosa da fare, chiudevo le palpebre degli occhi, mi concentravo
sull’ultimo sottile dolore che riuscivo a provare, fino a quando anche quello
smise di tormentarmi, con grande sollievo, lasciandomi libero.
Bruno Magnolfi
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